Talent hunting: cercare i talenti fuori o dentro l’azienda?
Il talent hunting, cioè la continua attività di ricerca dei talenti, che si esplica prevalentemente all’esterno dell’azienda, è sempre orientata verso una scelta selettiva di persone con skill di assoluta qualità , definite appunto talenti.
Nessuno mette in dubbio che l’inserimento di persone con elevate skill, soprattutto se ben posizionate all’interno di un’azienda, garantisca a qualsiasi organizzazione di ottenere in tempi relativamente brevi eccellenti risultati.
Ma la prima considerazione da fare è che non è facile accaparrarseli. Sia a causa della sempre pi๠forte concorrenza sul mercato del lavoro, sia per il fatto che non tutte le aziende hanno la stessa facilità di attrarre talenti. Ci riusciranno più facilmente, come è ovvio, quelle quotate, con brand riconoscibili, prestigiosi, ben posizionati sul mercato. Le altre dovranno accontentarsi.
Inoltre, e non è cosa secondaria, queste persone, consce della propria employability, saranno decisamente meno fedeli e molto più portate a cambiare azienda ove intravedano altre, più interessanti prospettive, sia di ordine economico sia di natura motivazionale: i cosiddetti intangibili o bisogni superiori, di cui parla Herzberg.
Vi è poi un’ulteriore considerazione da fare: assumere talenti non è la panacea. Lo vediamo molto bene nello sport. Squadre dove esistono fuoriclasse non è detto che ottengano i successi auspicati, mentre team ben affiatati, seppure privi di elementi di particolare spicco, possono raggiungere obiettivi di assoluto rilievo.
In ogni azienda, come in ogni squadra, ci sono vari tipi di collaboratori: quelli “bravi”, quelli “molto bravi” e i “talenti”, che in genere sono una esigua minoranza. Se trascuriamo eventuali “zavorre” (che si auspica possano essere individuate ed emarginate), tutti sono utili, secondo i loro compiti, per raggiungere gli obiettivi stabiliti. Certo, avere in squadra anche qualche top performer è importante. Ma non è sempre vero né è necessario andare a cercarli fuori dall’azienda.
Nella pratica emergente di “gestione del capitale umano”, dove il capitale umano di un’organizzazione è visto nel suo insieme come una leva finanziaria e una risorsa per ottenere un vantaggio competitivo, “l’utilizzo del talento”, di cui l’azienda già dispone ma spesso non è ancora in grado di riconoscere, è di gran lunga più importante dell’acquisizione di nuovi talenti.
In sintesi, il problema non è avere il talento assoluto in una squadra quanto disporre di elementi giusti nelle posizioni giuste, in grado di collaborare attivamente e in modo coordinato agli obiettivi dell’azienda.
Certamente il compito non è facile. L’HR enabler è necessario che svolga un’azione che tenda a liberare nelle persone, spesso condizionate dal contesto (scuola, educazione, ecc.), quegli stimoli necessari a superare certi paradigmi duri a morire. Primo fra tutti, quello di calarsi in ruoli preconfezionati, predeterminati da altri (a cominciare dal percorso formativo standard e dell’idea, ormai poco realistica, di sicurezza e convenienza economica del posto fisso), invece di chiedersi ciò che realmente è importante e significativo per loro.
Nello scenario economico e tecnologico di oggi le cose stanno mutando velocemente e i ruoli “ingessati” di questo tipo tendono a scomparire e sono sempre meno attraenti in termini economici, di significato esistenziale e di autorealizzazione umana e professionale.
Ecco perché i tempi sono favorevoli a un intervento che aiuti le persone, arroccate su un atteggiamento inutilmente difensivo e forse ormai anacronistico, a esporsi finalmente, a riconoscere e portare alla luce le potenzialità di spicco presenti in ognuno.
Dall’altra parte, il contesto organizzativo deve fare leva sulla fiducia e sul rispetto dell’employee engagement se vuole costruire una autentica social collaboration che spinga le persone a condividere le proprie idee e il proprio sapere.