La leadership aziendale e il coraggio di decidere: intervista ad Annalisa Galardi
“Spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a lavorarci. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande.”
A pronunciare questa frase è stato Adriano Olivetti e non l’abbiamo scelta a caso: nell’intervista con Annalisa Galardi parole come capacità, coraggio di fare e a cascata anche leadership, cambiamento, libertà ecc… sono venute fuori più volte.
Non poteva essere diversamente visto che Annalisa Galardi è consigliere di amministrazione della Fondazione Olivetti e docente di Comunicazione d’Impresa alla Cattolica di Milano. Ma soprattutto è la curatrice di un libro corale, “Il coraggio di decidere” (edito da Flaco Edizioni Group) che fa riflettere, grazie a diversi punti di vista, su cosa voglia dire oggi prendere delle decisioni coraggiose e allo stesso tempo sagge.
Annalisa, perché un libro come “Il coraggio di decidere”? Da dove è nata l’idea di un testo corale e come va letto?
“Questo libro va collocato all’inizio della pandemia: in un momento in cui circolava una paura molto forte – in un contesto che era già mutevole prima – il Covid ha dato una accelerazione mostruosa. C’era la sensazione di dover scrivere una nuova pagina della storia, ma di fronte alla paura c’è sempre un momento di paralisi. Il coraggio è sempre stato un tema di cui mi sono occupata, prima del libro avevo organizzato un corso con la Fondazione Olivetti sul coraggio di prendere decisioni sagge. Enrico Flacowski (l’editore, ndr) lo ha notato e mi ha scritto. Come sappiamo: la vera ricchezza sono le relazioni e vedere che una persona che reputo d’intuito riconoscesse il valore del tema del coraggio, significava che non era solo di mio interesse.
Per il libro ho disegnato un percorso fatto di approccio, che sono di fatto i primi 5 capitoli, e di una parte più operativa (perché la teoria non resti solo teoria); successivamente ho dato spazio anche a delle storie, perché penso che ci aiutino e ci salvino. La prima è quella di Adriano Olivetti: nella sua storia ci sono tutte le parole chiave del percorso – come la frase “persone al centro”, che per lui non era uno spot come a volte è oggi, ma un approccio reale – e di fatto rappresenta il filo conduttore che attraversa tutto il libro. Le storie hanno come protagoniste aziende miste e diverse tra di loro, per dare ai lettori uno spaccato vario di realtà che producono cultura, generano bellezza, sono attente al territorio. In ognuna di esse poi ho voluto mettere in risalto un messaggio per i giovani. Chiude il disegno il fatto di devolvere la fee del curatore al Fondo Famiglia Lavoro – Fondo San Giuseppe della Caritas”.
Si parla tanto di leadership oggi: come la possiamo definire: una dote, un’attitudine, un approccio? Un mindset?
“La leadership è un lavoro che ciascuno è chiamato a fare su di sé anche attraverso il tema del coraggio. Si pensa sempre che la leadership abbia a che fare solo con il capo che è qualcuno che deve tirare avanti un’azienda o portare un team verso una direzione. Ma il leader è il portatore di un purpose che deve alimentare una passione ed è qui che entra in gioco il coraggio, ossia la volontà e capacità di fare un passo in più. Oggi vedo che il coraggio ha dei colori diversi rispetto al passato, così come l’errore in cui si incappa, quando si fanno le cose, è una fonte di apprendimento. A me piace parlare di leadership diffusa perché mai come oggi è chiaro che il futuro si costruisce insieme e ciascuno si deve assumere la responsabilità del proprio contributo. Solo insieme possiamo cambiare e solo se c’è davvero la voglia di uscire da questa zona di comfort e andare in una direzione che dobbiamo prima immaginare e poi seguire”.
E come sovvertire quella sensazione che le persone hanno di non sentirsi mai dei leader?
“Bisogna far scorgere le possibilità di ciascuno puntando ancora di più sull’empowerment e sulla consapevolezza delle proprie doti personali. Qualcuno pensa che sia coraggioso solo chi compie un’azione eroica fuori dagli schermi, mentre è coraggioso per esempio chi apprende perché sta accogliendo delle cose nuove e abbandonando quelle fatte finora. Non bisogna soltanto pensare a modelli astratti di leadership o al ruolo del capo o trascinatore, ma leader è chi riesce a individuare una direzione, dare l’esempio con il proprio comportamento. A volte si apprende di avere la leadership perché altri ce la riconoscono e affrontiamo con coraggio e fiducia le sfide”.
Parliamo di coraggio che è il vero protagonista di questo libro: cos’è per le persone e per le organizzazioni? E perché per decidere ci vuole coraggio?
“Per me il coraggio è l’attitudine a esplorare il possibile ma anche mettere il cuore nelle cose che si fanno. Credo sia molto esemplificativa in tal senso la copertina del libro: quando l’editore me l’ha presentata e ho visto che c’è una persona che si tuffa, ho pensato che rappresentasse il coraggio. ‘Decido e vado’: quello è il momento del tuffo in cui faccio entrare il futuro nel mio presente, senza sicurezza totale ma con una buona dose di certezza.
Il momento del tuffo sta a significare che, prima di farlo, ho guardato le condizioni intorno a me, valutato la distanza dal trampolino, se ero da sola o se gli altri avrebbero riso di me, ho fatto anche delle considerazioni di tipo sociale. Che nella copertina ci siano altre persone in acqua è importante perché nell’essere coraggiosi conta moltissimo la società, contano le norme che abbiamo condiviso con gli altri, gli altri li abbiamo presenti anche quando non lo sono fisicamente. Nel libro abbiamo introdotto il “coraggiometro” che aiuta a capire quanto un’organizzazione sia coraggiosa e metta in atto comportamenti coraggiosi. Alcune aziende fanno resistenza a un’analisi del genere ma è importante, anche per evitare i casi di miopia in cui spesso incappano le imprese”.
Nel libro si parla di 5 tipi di coraggio, li elenchiamo e andiamo nel merito di ciascuno di questi?
“Si tratta di 5 tipi di coraggio che vengono fuori da un’analisi sulla letteratura esistente e dal lavoro che ho fatto con le imprese prima della pandemia.
Ho provato a organizzarli in modo che fossero comprensibili.
- Coraggio di dire: è il coraggio di esprimere la propria opinione per una persona e, nel caso di un’impresa, di prendere una posizione, essere un medium: intreccia infatti i temi dell’attivismo, del trust e della fiducia. Ma non solo: è anche il coraggio di rompere il silenzio e vincere l’insicurezza. Come dico nel libro: il silenzio non è sempre espressione di consenso, ma spesso timore di esprimersi. Non è assenso, in quel caso è terrore ed è fortemente legato al senso di appartenenza aziendale: quando non ti esprimi liberamente non ti senti di far parte di qualcosa, e spesso non ce l’hai neanche nei confronti dei colleghi”.
- Coraggio di dare: considera la generosità come motore di sviluppo. Vuol dire mettere a disposizione degli altri una qualità organizzativa importante: far circolare la conoscenza, farla diventare patrimonio comune ed è importante trovare un’organizzazione che dia valore all’essere a disposizione degli altri. Bisogna puntare a creare un network di valore come succede su LinkedIn. Anche perché, se ci pensiamo bene, se non avessimo avuto la possibilità di collaborare a distanza, avremmo perso 2 anni di lavoro e di vita.
- Coraggio di fare: ha a che fare con la capacità di far accadere le cose e di implementare i progetti in un tempo piuttosto breve così come di poter fare sbagliando. Abbiamo un tempo che cambia, non possiamo pianificare la perfezione, dobbiamo imparare a parcellizzare gli eventi, a sapere che farò delle cose che potrei anche buttare via. Bisogna essere pronti a fare e disfare il che non è affatto facile ed è per questo che bisogna creare strutture leggere.
- Coraggio di essere nella relazione: è quello che si basa sulla capacità di mettersi nei panni dell’altro e di affidarsi. Una tipologia di coraggio importante e che, quando non c’è, emerge nella sua mancanza: basti pensare ai capi che durante la pandemia sono un po’ scomparsi lasciando i loro dipendenti da soli, così come quelle aziende che non hanno saputo essere nella relazione e hanno portato le persone ad andarsene. A questo si lega il tema dell’inclusione: le persone cercano una dimensione di calore umano, l’ascolto dei propri bisogni. Questo è forse l’unico periodo storico in cui in azienda abbiamo 5 generazioni diverse tra di loro e dobbiamo saperle ascoltare.
- Coraggio di decidere: è quello di prendere una decisione in una direzione, individuata anche quando non si ha la sicurezza che sia quella giusta. Di fronte a problemi complessi non ci sono soluzioni pronte, si tratta di mettere in atto un problem solving creativo. Ecco perché conta molto l’esercizio della creatività: sono poche le aziende che lasciano spazio a questa all’interno della vita ordinaria. Le persone svolgono compiti molto meno creativi oggi e non ci sono tanti spazi per la fluidità della creatività. Siamo in un flusso di lavoro continuo che ci porta a passare da una cosa all’altra senza pensare. Il pensiero invece ha bisogno di spazio”.
Nel libro si dice anche che il coraggio si può allenare, come la creatività: quali strumenti o azioni un’azienda può mettere in campo per fare quel tuffo che tu dici e che c’è nella copertina?
“Innanzitutto fare il punto su questi elementi può essere una buona base di partenza per la propria organizzazione. Poi ovviamente dipende da quale area di coraggio serve allenare e dal tempo che ci si può dedicare. Non ci possono volere meno di 6 mesi – per dire un numero – per diventare coraggiosi rispetto agli elementi che si vuole allenare. Quando faccio progetti di questo tipo, individuo delle sperimentazioni specifiche studiate ad hoc affinché le persone si cimentino per un periodo abbastanza prolungato. Bisogna fare un ragionamento insieme per vedere una reale evoluzione”.
In fondo, come dice Simon Sinek: “La leadership non è una competenza. La leadership è un’educazione costante”.