Intelligenza artificiale: sarà la morte delle risorse umane?
Da anni, ormai, si discute del rapporto tra virtualità e realtà , tra digitale e umano, tra intelligenze artificiali e deficienze reali. Se ne occupano tutte le discipline, dalla sociologia al marketing, dall’economia alla politica. Impossibile fare ordine tra le miriadi di punti di vista (in costante evoluzione, tra l’altro), ma sembra abbastanza evidente una preoccupazione di fondo: stiamo costruendo aggeggi e ambienti che, un domani non tanto remoto, invece di aiutarci, ci distruggeranno?
So che avete visualizzato lo scenario apocalittico di Terminator, ma, a meno che non avremo la grazia di innescare un conflitto nucleare, le cose dovrebbero essere leggermente meno nette e spaventose. Tuttavia, la perplessità rimane e l’incertezza impera: in che modo dovremmo gestire questa transizione ad un’integrazione uomo-macchina ancora più spinta di quella alla quale assistiamo oggi? Come riusciremo a salvare quella porzione di abitudini, cultura, identità , professioni che non andrebbe gettata via, ma, decisamente, fa a cazzotti con l’ottimizzazione moderna?
Col buon senso, direbbe mia nonna. E avrebbe ragione, senonché il concetto di buon senso non è uguale per tutti. In secondo luogo, crea sempre tanta confusione intercettare le opinioni (lecite, per carità ) di chi, però, non sa manco cosa siano i social network, i chat bot, la gamification o i software per il project management.
Che il web-universo ci stia offrendo quotidianamente conferma di quanto possa essere pessimo è motivo sufficiente per prendere in blocco ciò che è digitalee bollarlo come pericoloso o nemico della concentrazione e della produttività o œrischio per il lavoro?
E’ tutto da dimostrare. Ma il timore di molti responsabili HR ruota (più o meno consapevolmente), anche intorno a queste considerazioni e una recente chiacchierata con amici e colleghi, mi ha restituito lo scenario di chi ha fatto bloccare Facebook in azienda perché se no, non lavorano e di chi non prende neanche in considerazione l’utilizzo di sistemi informatici per la gestione di alcuni processi, poiché spaventato dall’idea di non saperne gestire le implicazioni sociali, più che tecnologiche.
«E se un domani il capo mi dice di licenziare i nostri formatori perché tanto c’è questo nuovo fichissimo sistema di e-learning che, praticamente, fa tutto da solo?»
Calma, calma, calma.
Dubbi leciti, presupposti errati. O, almeno, incompleti. E torna il buon senso di mia nonna: tecnologie ed esseri umani andrebbero fatti crescere in reciproca armonia, potenziando le loro peculiarità e capacità , che sono, grazieaddio, diverse. La macchina (in senso lato) va impiegata per fare il lavoro sporco, duro, alienante e poco gratificante, semmai, non per sostituirsi al pensiero critico e alla professionalità dei sangue caldo con una storia, un’anima, una conoscenza di contesto e una creatività fluida non affini agli ammassi di transistor.
SONO STRUMENTI, non IDOLI.
Ottimizzazione, non standardizzazione selvaggia.
Comodità , non lassismo.
Nell’articolo “leadership, l’arte della guida nell’era della Rete” ritroviamo questo concetto di “potenziamento dell’essere umano”: investire nell’uomo (e nelle sue peculiarità ) per dominare la tecnologia, renderla funzionale ai propri scopi, demandarle i compiti pi๠onerosi e non farsi ingoiare come una mentina.
Se fosse sfuggito a qualcuno, gli ambienti digitali sono popolati de esseri umani, non da ologrammi: la questione non è bloccare o meno Facebook, ma capire se e in che modo Facebook (o altri social) rovinino o migliorino la giornata lavorativa di una persona (le persone, ricordate? Quelle che dovreste gestire). Qual è il senso del rifiutarsi di approfondire e fare i conti con ciò che permea la vita di tutti?
In sintesi, paradossalmente, il ritorno a una formazione più squisitamente umanistica sembra essere la scelta più intelligente proprio nell’era della tecnica.
Perché, si sa: niente come la conoscenza riduce la paura.