Formazione e ambiente di apprendimento: è tutta responsabilità del trainer?
Il primo corso di formazione come docente l’ho tenuto a 28 anni e lo ricordo ancora oggi come un film horror.
Aldilà dell’ovvia emozione di dover gestire un’aula (chi non l’ha mai fatto, difficilmente comprende), erano proprio le condizioni contestuali a esercitare un peso specifico inquietante:
PUBBLICO: 30 quadri sindacali, età media 55 anni;
TEMA: comunicazione e gestione del conflitto (corso a catalogo, imposto dall’alto);
UBICAZIONE: paesino ai piedi delle montagne, vicino Cogne, nel nulla;
LOCATION: ex nosocomio riadattato a centro di formazione (da un pazzo, suppongo);
CLIMA GENERALE: fase di transizione, lotte intestine per un pezzettino di potere in più, odio strisciante e una discreta voglia di mettersi in mostra, scavalcando il prossimo, docente incluso;
DISPOSIZIONE DELL’AULA: a banchi di scuola, il non-plus ultra della sfiga didattica;
PRE-REQUISITI: nessuna precedente esperienza formativa, condita da una buona dose di diffidenza e supponenza (un classico dei classici, ma ancora non ne ero consapevole), perchè, si sa: tu, piccola, fragile maestrina, che ne sai di cosa vuol dire il mondo del lavoro? Che ne capisci del nostro quotidiano, delle nostre responsabilità , dell’esperienza sul campo e dell’infallibilità del sindacalista medio?
ASPETTATIVA DELLA COMMITTENZA: miracolo sull’ottava strada.
Si fa un gran parlare delle abilità di un docente (o formatore o facilitatore o trainer, chiamatelo come preferite), di quanto debba essere in grado di coinvolgere, motivare, scatenare entusiasmo, saper manipolare al meglio le informazioni per renderle fruibili, ecc: tutto giustissimo.
Ma si parla molto meno di quanto le condizioni organizzative/di contesto e i pre-requisiti dei discenti esercitino un’influenza potentissima (sia in positivo che in negativo) sull’esito di qualsiasi attività che riguardi le persone, la conoscenza, la modifica di un comportamento.
Ovvio che un formatore debba possedere “il manico”, oltre che le conoscenze specifiche, e il suo lavoro non si può certo riassumere nella lettura di una stupida slide (pure brutta) davanti a un qualsiasi uditorio.
Ovvio anche che un committente (sia esso il vertice aziendale, il capo dei capi o chiunque altro) valuterà l’ottenimento di un risultato a fronte del passaggio da una condizione A a una condizione B, e sarà portato ad attribuirne l’intera responsabilità a nostro-signore-dell’aula.
Ma siamo proprio sicuri che quanto esiste e succede a monte e intorno al processo specifico non conti niente?
Età anagrafica, livello di maturità professionale, momento del percorso di carriera, precedenti esperienze, predisposizione e interesse rispetto ai temi proposti, marketing di progetto (come è stato comunicato il piano formativo), percezione di utilità , composizione dell’aula (sono tutti junior? Sono capi e collaboratori? Hanno competenze differenti? Ci sono criticità interne? Due di loro si ammazzerebbero volentieri? Almeno quattro di loro sono abituati a leggere il giornale durante qualsiasi corso?), location (sì, anche la location, perché non venitemi a dire che stare nel magazzino delle scope in azienda possa sortire lo stesso effetto psicologico di un bell’albergo col laghetto e le paperelle), durata e gestione dei tempi (sì, anche durata, perché i tecnici del know how lo sanno perfettamente che, al di sotto delle due giornate, non c’è sufficiente spazio per creare una qualche soddisfacente dinamica di gruppo) sono tutti elementi importanti e, a prescindere da qualsiasi effetto speciale che il trainer possa sparare durante il corso, avranno una loro influenza.
Se, alle delizie sopracitate, andiamo ad aggiungere: situazione organizzativa globale (crisi, non-crisi, cambiamenti indesiderati, fusioni, acquisizioni), clima generale (magari mappato da una bella indagine che ha confermato quanto i dipendenti siano tutti incazzati), dirigenti sostituiti da poco che tentano di “invadere la Polonia” coi metodi e le strategie appresi negli incarichi precedenti (con risultati surreali, spesso), ecco che abbiamo un quadretto suggestivo di quello che si trova a dover gestire da solo – con il proprio faccione sorridente, quel povero Cristo che vi trovate di fronte in un’aula.
Il discente sta là e lo guarda delegandogli l’intero successo di quelle ore trascorse insieme, come se avesse i superpoteri e la capacità di spaccargli la testa e ficcarci dentro il Verbo, annullando magicamente qualsiasi resistenza e restituendo all’azienda un automa contenente le nuove direttive.
Il committente sta là e lo guarda come a dirgli: “embè? Tutto qui? Ma questo lo sapevo fare pure io”. Già , peccato che non lo fa. Non l’ha mai fatto. Non lo saprebbe fare neanche lontanamente. S’impappinerebbe alla prima obiezione, al primo sbadiglio, alla prima incertezza. Non coglierebbe i segnali. Non saprebbe adeguare linguaggio, stimoli, modalità relazionali. Non saprebbe interpretare i tempi, i bisogni, le paure. Non saprebbe incanalare le energie nella direzione giusta.
Ma guai a farglielo notare.
E invece sarebbe proprio questo il segreto di tutto.
L’unico vero grande superpotere del quale dotarsi senza scomodare gli alieni: provare a farlo. Almeno una volta, provare a vedere cosa significa fare il lavoro di un altro, capire quali sono le problematiche, cosa comporta, come si può migliorare e, soprattutto, quale tipo di alleanza committente-HR-formazione va assolutamente sviluppata fuori dall’aula per far sì che i progetti apportino realmente il valore per il quale si investono tante risorse.
[Ah, sì: poi, alla fine, quel corso andò pure bene]