Feedback for continuous improvement: quando la comfort zone migliora le performance
Qualche anno fa la Visa fece parlare di sé grazie a una campagna di advertising insolita e affascinante.
In alcune stazioni e luoghi di forte passaggio vennero posizionati dei display che sfoggiavano a tutto schermo delle pagnotte di pane divise, a tre quarti della loro forma, da una scanalatura per strisciare la carta di credito (Visa, ovviamente).
L’invito era: donate per i meno fortunati.
Ad ogni strisciata dei passanti incuriositi (ad ogni donazione), il display mostrava una fetta di pane staccarsi di netto dal corpo centrale. Semplice, potente.
Un’azione, un feedback. Immediato, concreto e, soprattutto, positivo, quasi divertente.
Un bel cambio di paradigma rispetto a un tema “quello della povertà” che molto più spesso viene trattato facendo leva sul senso di colpa, sull’intrinseco biasimare chi ha di più.
In sintesi: sul farci notare un privilegio, così da spingerci all’azione, ad un comportamento migliore, ad una qualche evoluzione.
Pare che i feedback negativi molto amati da alcuni manager e promossi come imprescindibili strumenti di progresso umano e professionale vivano una piccola crisi anche in azienda a favore dei cosiddetti “feedback for continuous improvement“, condivisi in ottica di miglioramento.
Continuous feedback, alcuni esempi
Il pensiero va a colossi come Netflix del quale si è recentemente occupato il Wall Street Journal la cui cultura della trasparenza e della schiettezza estrema è arrivata a toccare apici grotteschi.
Dal racconto di 70 ex dipendenti, emerge il ritratto di una realtà che incoraggia i vari team di lavoro a darsi reciprocamente feedback feroci. Una volta l’anno risultano letteralmente costretti a codificarli attraverso uno strumento software chiamato “360.” Chiunque può riceverne e darne in modo anche molto duro e diretto perché altrimenti come si fa a crescere e correggersi?
In alcune cene e pranzi di gruppo ci sono turni di “360 in tempo reale” dove ognuno si alza dal proprio tavolo e va in giro ad elargire feedback e critiche agli altri mentre stanno ancora mangiando. “Può essere intenso e imbarazzante“, ha riferito un dirigente.
Fermi tutti. Ma sarà davvero funzionale allo scopo? E, soprattutto, che tipo di cultura potrà mai consolidare questo ipertrofico utilizzo di pollici versi?
Performance management e continuous feedback
Il dibattito sul feedback (positivo, negativo, come darlo, quando darlo) non è certo roba dei nostri giorni e, probabilmente, nel tempo, lo stesso concetto ha acquisito sfumature differenti.
Ma il punto non è dare feedback (come se questo fosse sufficiente), il punto è: che tipo di risultato dovrebbe generare quella restituzione nella testa e nel cuore di chi lo riceve. Un feedback che porta solo frustrazione e disaffezione è utile? Uno che viene regalato nel momento e nel modo peggiore ha senso? Il beccare in fallo le persone le aiuta davvero a migliorare?
L’HBR, in un articolo, collega questa ossessione per il feedback continuo a tre convinzioni organizzative dominanti:
1) Le persone non sono mai in grado di vedersi dall’esterno (se il tuo vestito è macchiato, se la tua presentazione è noiosa può dirtelo solo qualcun altro. Solo così puoi porre rimedio)
2) Il processo di apprendimento è assimilabile al riempimento di una scatola vuota (basta dire aggiungi questo, sposta quest’altro, sii un po’ meno te stesso, no, adesso un po’ di più e questo, magicamente, avviene)
3) Una performance professionale efficace è oggettiva, archetipica e trasferibile da una persona all’altra, con gli stessi ingredienti e le stesse caratteristiche, indipendentemente dall’individuo che la deve interpretare. (Questo, ovviamente, serve a standardizzare le misurazioni e sbattersi il meno possibile in sede di colloquio di fine anno).
Il primo problema dell’eccessiva dipendenza da queste teorie è che gli esseri umani sono inaffidabili valutatori di altri esseri umani.
Gli ultimi 40 anni di ricerche psicometriche dimostrano come nessuno sia in grado di tenere a mente una definizione stabile di elementi astratti come l’acume o l’assertività: le nostre valutazioni sono il frutto di quanto noi comprendiamo di quello specifico tema (sempre troppo poco, aggiungo io) e non solo di quel che viene rilevato (apparentemente in modo oggettivo) nell’operato di terzi.
In altre parole, un feedback dato partendo da un’ignoranza di fondo è solo una distorsione della verità, un errore sistematico che si ripete e si ripete nel tempo, portando i collaboratori ad azioni a loro volta prodotte da un errore: il tuo.
Il secondo problema riguarda la sommatoria di feedback (negativi e imprecisi) rispetto a uno stesso compito/dipendente. Per questioni di sopravvivenza facilmente intuibili, chi è posto sotto il fuoco di fila di valutazioni incrociate (come nel 360) potenzialmente entropiche, finirà col crearsi una media interiore per assorbire le indicazioni principali emergenti dai molteplici punti di vista, allontanandosi ancora di più da una realistica possibilità di interpretare correttamente se stesso, al meglio, nelle diverse circostanze e sfide.
Andiamo al terzo problema, quello neurologico: il cervello continua a svilupparsi durante tutta la vita, certo, ed è imprevedibile il suo percorso individuale, ma è dimostrato che cresciamo di più nelle nostre aree di maggiore capacità, poiché le connessioni sinaptiche nelle sezioni che potremmo definire i nostri punti di forza sono decisamente più numerose. In altre parole: il cervello cresce dove è già forte.
Continuous feedback e comfort zone
Joseph LeDoux, professore di neuroscienze alla New York University, lo descrive in modo efficace: “le connessioni neurali aggiunte sono più come nuove gemme su un vecchio ramo piuttosto che nuovi rami.” In questa ottica, per generare risultati, l’apprendimento deve basarsi su modelli già presenti nell’individuo, trovando e comprendendo quei modelli, quegli schemi, non quelli di qualcun altro.
Difficilmente si può estrarre una performance eccellente allontanando drasticamente il professionista dai propri punti forza, attraverso la costante rilevazione di ciò che non sa fare o non riesce a fare.
Gli esperimenti di laboratorio con risonanza magnetica rivelano come il feedback negativo attivi le aree del sistema nervoso che funzionano per attacco o fuga (metto in discussione quello che mi stai dicendo o, in alternativa, mi allontano, mi deprimo, mi inibisco), riducendo al minimo l’afflusso di sangue verso le parti del cervello che dovrebbero registrare e fissare le nuove informazioni, grazie alla proliferazione di nuove connessioni.
La forte emozione negativa prodotta dalla critica “inibisce l’accesso ai circuiti neurali esistenti e invoca il deterioramento cognitivo, emotivo e percettivo“, sostiene lo psicologo Richard Boyatzis.
Concentrare le persone sulle loro carenze o lacune non consente l’apprendimento. Lo altera.
Chi viene incoraggiato a lavorare attraverso la dimostrazione di esempi positivi, al contrario, accede alle porzioni cerebrali che attivano la neurogenesi, indispensabile per l’ampliamento delle abilità .
Sembra, quindi, che l’apprendimento si basi molto di più sulla comprensione di ciò che stiamo facendo bene (mentre lo stiamo facendo), piuttosto che il contrario e, certamente, non sul senso degli altri di quello che non riusciamo a fare come loro. Impariamo di più quando prestano attenzione a ciò che funziona in noi e ci chiedono di coltivarlo in modo intelligente.
Si sente spesso dire che la chiave per imparare è uscire dalle zone di comfort, ma diverse evidenze contraddicono questo luogo comune: portarci molto lontano da quel luogo farà sì che il cervello andrà a limitare la considerazione verso qualsiasi elemento non in linea con la sua esperienza diretta (come l’opinione di altri, ad esempio).
Apprendiamo di più nelle nostre zone di comfort perché è lì che i percorsi neuronali sono più concentrati. E’ dove siamo più aperti alle possibilità, più perspicaci e produttivi.
Ecco dove il feedback dovrebbe incontrarci per aiutarci a crescere: nei nostri momenti migliori.