Così il microlearning entra a pieno titolo in un Learning Management System
C’erano una volta le comunità di pratica, termine comparso per la prima volta intorno agli anni ’90, quando Etienne Wenger, esperto di gruppi e organizzazione, iniziò a gettare le basi per una riflessione che sarebbe approdata, nel tempo, a concetti ormai noti come il cooperative learning, la reificazione progettuale, la necessità di utilizzare le conoscenze tacite e implicite dei worker per generare valore sistemico in team di lavoro sempre più parcellizzati, virtuali e fluidi.
I vantaggi di una visione collaborativa dei processi aziendali sono intuitivi (un noto Case History racconta di come Starbucks abbia implementato una nuova bevanda a livello mondiale, nel giro di 24 ore, solo ascoltando le conversazioni dei dipendenti sul posto di lavoro), ma che succede quando si parla di acquisizione di nuove competenze o meta-competenze?
Nelle social organization, il tema dell’apprendimento e, in particolare, quello del knowledge management (come favorirlo, sistematizzarlo, renderlo virale, farne strumento di supporto continuo) si pone al centro dei pensieri della funzione HR.
Quali potrebbero essere gli accorgimenti per ottimizzare e migliorare questo processo alla luce del fatto che la comunità di pratica offline si è trasformata in community online?
Potrebbe tornare utile questo stralcio all’intervista di Josh Bersin, direttore di Bersin by Deloitte.
«Nel luogo di lavoro “sempre attivo” le aziende non dovrebbero aver paura di investire in nuovi strumenti e piattaforme che consentano alle persone di dialogare e imparare» continua Bersin: «Quando i social media sono entrati nelle nostre vite tutto è cambiato. Dipendenti e consumatori ora desiderano contenuti didattici di dimensioni ridotte, facilmente reperibili e un’esperienza utente più simile a un motore di ricerca o a un televisore che a un catalogo dei corsi.
Ogni soluzione di apprendimento si sostanzia in macro e micro-argomenti. Fondamenti, background e teoria sono sempre tematiche macro o di forma più lunga. Ad esempio, se vuoi imparare come diventare un programmatore Java, hai bisogno di un’educazione fondamentale nelle strutture dati, nella sintassi, nella lingua e nell’uso dei vari strumenti Java. Una volta che diventi un programmatore e impari come codificare, tuttavia, potresti aver bisogno di molta istruzione “aggiuntiva” che ti insegni tecniche speciali, soluzioni a problemi comuni e offra piccole risposte a domande tipiche in un formato micro. Questo mix è sempre stato comune in ogni tipo di apprendimento, ma oggi esistono finalmente strumenti in grado di dar seguito concreto al principio.
In tutte le ricerche che abbiamo fatto (e abbiamo fatto molto), concludiamo sempre che è la cultura che conta. Quando un’azienda ha una “cultura dell’apprendimento” le persone si prendono del tempo per riflettere e per imparare, parlano di errori in modo positivo e la tecnologia diventa fattore abilitante, ma mai sostitutivo della relazione umana.
Ogni organizzazione premia le persone per l’istruzione formale e i certificati. Ma oltre a ciò, la performance reale si basa sulle vere abilità , esperienze, i doni naturali di un individuo, sulla passione e il desiderio di risolvere i problemi. Sapere che qualcuno è “certificato” nelle vendite o nell’ingegneria può non significare nulla. La vera sfida consiste nell’identificare le abilità “non certificate” e insegnare alle persone a concentrarsi sul miglioramento di tali aree. Per questo è necessario un nuovo set di piattaforme: sistemi che possano gestire contenuti e amministrare sia corsi di formazione tradizionali che raccolte di “pillole formative ragionate“, garantendo una user experience digitale realmente professionalizzante».