Connessi ma isolati nell’era della tecnologia digitale
Viviamo in ambienti che, grazie alla tecnologia digitale, favoriscono un crescente isolamento delle persone, sia nella sfera privata sia in quella lavorativa. La tendenza odierna, piuttosto frequente, consiste nel separarsi dal contesto sociale percepito come minaccioso e pieno di insidie per rifugiarsi in bolle protettive, con la sicurezza di trovare asetticità e la possibilità di infiniti collegamenti globali, senza rischiare (apparentemente!) troppi investimenti di carattere emotivo.
Tutti conosciamo, però, le derive patologiche che tali atteggiamenti possono favorire, se portati all’eccesso: pensiamo, ad esempio, al fenomeno dei cosiddetti hikikomori, giovani che si autorecludono nella loro stanza, rifiutando qualsiasi contatto con la realtà , di cui ormai anche in Italia sentiamo parlare spesso.
Ma il pericolo di questa tendenza all’isolamento, seppure in chiave ridotta, è presente anche in coloro che svolgono la propria attività lavorativa nell’ambito di reti aziendali e social network professionali con una dimensione relazionale prevalentemente globale. A questo proposito, vorrei introdurre una osservazione tratta dal libro “Modus vivendi: inferno e utopia del mondo liquido“ che il sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman riprende da Manuel Castells per affrontare questo tema piuttosto delicato.
Tu dove ti trovi? In galleria o in platea?
Bauman si dedica allo studio della vita sociale nelle città , ma la sua analisi è valida anche per il mondo aziendale. Lo studioso divide gli abitanti della città post-moderna in due grandi categorie: gli abitanti della platea che vivono in rapporto con gli altri, dando un valore significativo all’identità fisica e al contatto diretto con le persone (scambi di idee, esperienze, ecc.), e quelli della galleria che invece vivono la comunicazione globale come una specie di delocalizzazione esistenziale, in quanto abitano un luogo senza in realtà farne parte.
Tornando all’aspetto delle aziende, i primi sono quelli che occupano i loro uffici all’interno dell’azienda e partecipano alla vita sociale; i secondi, quelli che “sia che occupino fisicamente l’ambiente o che lavorino da remoto” hanno una dimensione lavorativa e relazionale decisamente più virtuale, in quanto protetta (o nascosta) all’interno di reti aziendali o social network professionali.
Gli abitanti della galleria sono meno coinvolti nel sistema e, pur riconoscendosi nell’azienda e nella sua vision, la vivono in modo più distaccato, fanno fatica a sentirsi parte integrante di essa, blindati come sono nel loro bunker individuale, da cui godono di un orizzonte più ampio rispetto a quelli della platea, ma a cui sfuggono aspetti più contingenti legati al territorio su cui gravitano, in quanto ininfluenti.
Per cercare di risolvere il problema dell’isolamento delle persone nell’ambito delle città, gli architetti e gli urbanisti propongono soluzioni che favoriscono la partecipazione da parte di tutte le componenti sociali, creando ambienti e centri di incontro per favorire l’aggregazione sociale, la condivisione delle idee e delle esperienze tra le persone.
Spazi che non devono per forza essere strutture culturali (circoli, biblioteche, ecc.), ma che possono essere luoghi slegati da qualsiasi condizionamento utilitaristico o di ruolo, in grado però di favorire la convivialità e gli incontri informali come bar, ristoranti, ecc. Privilegiando proprio l’aspetto dell’accoglienza, del confort, del relax, si vogliono sviluppare le potenzialità creative e intellettuali di questi luoghi.
Un nuovo modo di intendere lo spazio-lavoro: la prossemica.
E nelle aziende? Paradossalmente le ricerche più recenti arrivano alle stesse conclusioni. Per cercare di ridimensionare il più possibile l’isolamento di alcuni individui nel loro lavoro, occorre creare degli spazi comuni dove sia possibile favorire lo scambio di idee, esperienze, sensazioni, in una dimensione casuale e informale. Principio che contrasta in modo evidente con certe scelte del passato che regolamentavano in maniera limitante qualsiasi pausa lavoro non prevista dal contratto.
Siamo, insomma, di fronte a un nuovo modo di intendere lo spazio-lavoro come strumento strategico per una crescita più armonica dell’impresa. Occorre che le aziende tengano conto degli stress psicofisici cui i collaboratori, specialmente quelli quotidianamente connessi in modo prevalentemente virtuale, sono sottoposti in relazione all’ambiente in cui vivono e facciano in modo che non manchi mai l’integrazione all’interno dei sistemi aziendali tra risorse umane e tecnologiche, favorendo modalità di lavoro che uniscano le esigenze della produttività e il benessere delle singole persone.
Le aziende più sensibili sotto questi aspetti stanno adottando soluzioni decisamente innovative in questo senso: pensiamo, ad esempio, all’Apple Park, recentemente inaugurato a Cupertino o al Campus Charleston East di Google, in corso di realizzazione (dovrebbe essere pronto nel 2019), che prevede la costruzione di un grande centro con un avveniristico edificio di due piani con ristoranti e parchi, destinato ai dipendenti ma aperto anche al pubblico per prendere una pausa, rilassarsi, favorire lo scambio di opinioni, ecc.
Insomma, negli ultimi tempi si sta dedicando sempre più attenzione alla prossemica, cioè alla scienza che indaga il comportamento sociale dell’uomo in relazione alla distanza e allo spazio che egli interpone tra sé e gli altri nella vita quotidiana e nelle attività di lavoro.
Le aziende digitali non devono perseguire solo soluzioni che portino efficienza ed efficacia nei processi che gestiscono, ma anche promuovere nuovi valori, nuovi approcci che aiutino la creatività e migliorino anche il rapporto umano tra le persone.