Come sviluppare l’employer branding grazie alla tecnologia
Che si debba acquistare un telefono, un libro o un oggetto di design, ciò che avviene con sempre maggior frequenza è interrogare Google con una domanda: qual è il miglior cellulare del momento, quale l’ultimo modello o ancora il miglior telefono rapporto qualità prezzo?
Ciò che rimanda il motore di ricerca è ciò che in effetti vogliamo sapere: cosa pensa chi l’ha acquistato, l’ha provato, lo ha da tempo. Le recensioni sono il sale degli acquisti di prodotti o servizi e anzi, quando queste non sono presenti, guardiamo la cosa con sospetto. Avremmo preferito che ci fosse qualcuno che dicesse “Tranquillo/a, l’ho fatto anche io”.
Anche per le aziende è così: i candidati si comportano in questo modo di fronte a un annuncio di lavoro. Guardano la posizione proposta, la RAL, la tipologia di contratto ma conta anche molto quel che si dice dell’ambiente di lavoro, dei responsabili e di tutto ciò che un job posting non riesce a raccontare. Scegliere di candidarsi per una posizione è un atto di fiducia e chi lo fa sa bene che il contratto è un accordo tra l’azienda che lo propone e il lavoratore che sceglie dove passare i prossimi mesi, se non anni di vita.
A dirlo ci sono anche i numeri: secondo uno studio sulla candidate experience condotto da Talent Board, il 74% degli intervistati conferma di fare delle ricerche prima di candidarsi e il 46% dimostra di non volersi accontentare e di andare oltre, nella ricerca di informazioni.
Se la brand reputation da sola non basta
La brand reputation arriva fino a un certo punto: è necessario far capire che dietro a un’immagine aziendale esiste un luogo di lavoro dove si verificano determinate condizioni, si crede e si attuano determinati valori, si fa carriera e vengono rispettate tutte le promesse di marketing verso il candidato: il cosiddetto employer branding.
La brand reputation e l’employer branding dunque non sono la stessa cosa, anzi hanno delle significative differenze, non solo dal punto di vista concettuale, ma anche rispetto a come vengono alimentati e agli strumenti tecnologici usati.
L’azienda che si erge sul piedistallo perché sta dando lavoro, nel 2020 non esiste più, né tanto meno esiste quel tipo di comunicazione monodirezionale azienda vs altri. Esiste la capacità di attrarre le persone e di sapersi mettere davvero in relazione (bidirezionale) con loro. Conta altresì quanto le persone, una volta salite a bordo, vengono ingaggiate, aiutate, ritenute preziose. Quello che si chiama employee engagement.
Vediamo in modo approfondito questi concetti cercando di capire come possono essere sviluppati in chiave tech.
Cos’è l’employer branding e come gestirlo al meglio
L’employer branding è pertanto qualcosa di intangibile che però condiziona fortemente un’organizzazione. Possiamo dire che si tratti di tutte le strategie messe in campo per costruire un’immagine aziendale come luogo di lavoro ideale (employer of choice) in modo da attrarre e fidelizzare i dipendenti di talento (candidate attraction and employee retention). E’ strettamente legata all’employer identity ossia a cosa contrassegna un’organizzazione per essere il posto dove un candidato vuole andare a lavorare (identità come datore di lavoro) e all’Employee Value Proposition, ossia alla proposta di valore che un candidato troverà una volta entrato in azienda e che è il mix tra quello che l’azienda fa e cosa fanno i dipendenti all’interno: i valori su cui si fonda, la sua missione, la soddisfazione, i colleghi ecc.
Lo dicevamo prima: un candidato ha davanti a sì infinite possibilità sia di trovare lavoro, ma anche di ottenere maggiori informazioni riguardo a chi pubblica un annuncio. Inoltre, il suo candidate journey, ossia il viaggio che compie dal momento in cui si imbatte in un annuncio fino alla candidatura e al primo colloquio, può essere particolarmente imprevedibile. Grazie al web, ai social, alle recensioni, a portali come Glassdoor, ma anche ad altro, un candidato può arrivare alla vostra azienda in modi che è difficile a volte immaginare. Ma è possibile. Pensare strategicamente all’employer branding vuol dire, infatti, considerare tantissimi fattori.
Per esempio, usare i social media in maniera diversa da come si fa per i clienti. O meglio con la stessa attenzione che si ha per i clienti, ma con contenuti completamente diversi, che non siano il mero annuncio We are hiring. Bisogna parlare alle persone e considerare i diversi bisogni che queste possono avere.
Per esempio, la vostra è un’azienda global? Allora la vostra comunicazione sui social dovrà tenere conto delle differenze, non solo linguistiche, ma anche di approccio e mentalità . Deloitte, per esempio, racconta come ha diversificato il suo employer branding in base ai vari bisogni: ci sono Paesi in cui contano di più i benefit e di contro altri dove la cosa più importante è il worklife balance. Per alcuni può contare di più la possibilità di fare carriera, per altri l’avere dei mentor. Essere consapevoli di questo, per esempio, consente di tarare al meglio la comunicazione sui social media e di intercettare il pubblico giusto.
Allo stesso modo, bisogna considerare ampiamente tutto quello che si dice dell’azienda nei canali non-ufficiali, in siti come Glassdoor o Trustpilot ad esempio (nei quali converrebbe curare il proprio profilo ancor prima che qualcuno scriva). Le recensioni vanno seguite e quando sono negative, bisogna saper gestire la crisi e rispondere. Ecco perché un consiglio potrebbe essere anche impostare un Google Alert con il nome del proprio brand in modo da non perdersi nulla.
Nel processo di employer branding, vanno anche inclusi i dipendenti. In ottica di employer branding, possono diventare determinanti come evangelist, ossia come coloro che diffondono l’azienda come luogo di lavoro. Lo sapete: ci si fida molto di più di quello che dice un amico o conoscente di qualsiasi cosa si possa trovare online… quindi spazio alle persone. E come? Facendole diventare protagoniste di questo processo, spiegando chiaramente quali sono gli obiettivi, chiedendo loro di raccontare come si trovano dentro l’organizzazione, come questo lavoro li ha eventualmente cambiati, cosa hanno imparato.
La tecnologia offre tantissime modalità che ovviamente vanno guidate strategicamente: i dipendenti possono usare dei video, raccontarsi nel blog aziendale, essere intervistati dal team di comunicazione per iscritto o durante un podcast. Possono diventare protagonisti di webinar, intervenire durante un career day o essere curatori di una rubrica sui social media. Questo permette di raccontare il vostro brand in modo naturale e far sì che i talenti si possano identificare, riconoscere. Inoltre, sarebbe meglio non trascurare di inserire un programma di referral dei dipendenti che possano a loro volta inviare un annuncio alle persone che conoscono. Un link tracciato e destinato solo ai dipendenti che a loro volta potranno far avere alle persone che ritengono di valore. Futuri candidati che, grazie a questo passaggio diretto, conoscono già l’azienda. Il 41% dei recruiter e dei responsabili delle assunzioni ritiene che i referral siano la fonte principale di talenti di qualità .
Cos’è l’employee engagement e come sfruttarlo al meglio
Connesso all’employer branding, come abbiamo visto, c’è l’employee engagement ossia la capacità di coinvolgere i propri dipendenti, di farli sentire parte del tutto, aspetto che spesso viene trascurato e invece è determinante per il successo di un’azienda. Anche perché più i dipendenti si sentono ingaggiati, pi๠sono propensi a parlare dell’azienda e fare il possibile per farla stare bene e stare bene loro. Anche in questo la tecnologia può fare miracoli e le modalità per far sì che le persone si sentano sempre più protagoniste possono essere davvero tantissime.
A partire, per esempio, dallo smart working che ha visto la sua esplosione con la legge sul lavoro agile a partire dal 2017. Il cloud, ormai sempre più adottato nelle aziende, o strumenti collaborativi come Slack, Trello e modalità per connettersi da remoto come Skype, Whereby e Zoom – per dirne alcuni – permettono a chi lavora da casa (in chiave smart) di sentirsi comunque dentro l’azienda, pur avendo i propri tempi.
Prevedere la possibilità di smart working avvalendosi della tecnologia agevola non solo l’equilibrio tra vita privata e lavoro (pensate ai genitori che fanno le corse o a chi ha un imprevisto in casa o in famiglia), ma cambia anche le logiche della produttività . Va contro quel presenzialismo che a volte rovina il clima in azienda ma fa sì che si lavori per obiettivi, portando avanti anche nuovi stili di leadership dove i manager incoraggiano e danno fiducia, valutando anche le soft skill, anziché incasellare le persone. Questo stimola anche l’empowerment del dipendente che sapendo che l’azienda punta non più su un’organizzazione piramidale e gerarchica, ma più orizzontale, è stimolato a crescere, sviluppando anche competenze per conto proprio. L’azienda stessa può per esempio farsi promotrice di piattaforme di e-learning come Coursera, o prevedere, grazie all’online, che un dipendente possa dedicare delle ore mensili alla formazione, mentre è seduto alla sua scrivania.
Così come, allo stesso scopo, concorre anche l‘Internet of Thing (IoT): poter prevedere la possibilità di utilizzare oggetti connessi può aiutare il lavoratore a trovare – per esempio – grazie a un’app o a sensori, le sale riunioni vuote per fare una call non prevista o a sapere quando è programmata la prossima lezione di yoga. O ancora, poter avere scrivanie, sistemi di condizionamento, illuminazioni che si adattano al lavoratore. Quante volte, in ufficio, la temperatura non risultava adeguata ma non è stato possibile fare nulla perché il sistema era centralizzato e tutti avevano caldo?
Sono solo tanti esempi di un modo del lavoro in cui candidati e dipendenti sono protagonisti attivi e concorrono non solo alla produttività , ma anche alla strategia, alla fama che l’impresa ha e alla sua capacità di attrarre persone. Sono, per usare una parola tanto in voga, degli ambassador. O forse degli influencer.