Come l’Agile può aiutare la funzione HR a essere parte integrante del processo: intervista a Matteo Sola
Diventare più agili nel mondo HR: cosa vuol dire di fatto? E come questo “proposito” può essere attuato in un mondo in continua trasformazione?
Per capire cosa sia l’Agile e come può migliorare il mondo delle Risorse Umane, ci siamo confrontati con Matteo Sola, HR Learning & Development Leader in Iliad, Digital & Agile HR Expert, autore insieme a Francesco Frugiele del libro “OKR Performance” (Ayros) e prefatore del libro “L’arte della leadership” (Flaco Edizioni Group).
Cosa si intende con Agile oggi? Si tratta di un metodo, un modus operandi, un approccio?
“Dal mio punto di vista, quando parliamo in generale di Agile, intendiamo sicuramente un mindset, addirittura potremmo definirlo una filosofia di lavoro, di approccio ai team, approccio ai progetti. L’Agile nasce con l’idea di cambiare le regole di fondo del gioco rispetto a come normalmente approcciamo le persone e l’organizzazione del lavoro. Possiamo dire che l’Agile è avere una cassetta degli attrezzi molto variabile. Il primo principio dell’Agile è, infatti, che non ci sono modi perfetti di fare le cose, ma tanti modi di costruire in maniera sperimentale. Ogni persona, secondo l’Agile, dovrebbe costruire una propria cassetta degli attrezzi. Dire ‘Si fa in questo modo’ per l’Agile è sbagliato, visto che si basa sulla sperimentazione e il cambiamento continuo, che sono i due aspetti principali di questo mindset insieme al fatto che le persone sono centrali”.
Invece cosa si intende per Agile management?
“L’Agile management è sostenere questo tipo di cultura e sostenere questo modo di fare sperimentazione continua, costruire l’humus culturale giusto. L’Agile management passa da una serie di principi e da una serie di cose concrete. Tra i principi c’è quello di riuscire a creare un ambiente che sia “safe”: la psychological safety è, infatti, la capacità di tutte le persone di potersi esporre in azienda e di sbagliare, di coltivare, cioè, la cultura dell’errore. In un ambiente in cui la sperimentazione e l’innovazione sono all’ordine del giorno ci deve essere la possibilità di fare sbagli, di testare le cose ed eventualmente cambiare strada.
L’Agile peraltro suggerisce di fare dei cicli di sperimentazioni brevi: di solito durano settimane e permettono di sperimentare sul campo gli aspetti del progetto. Questo per sondare il terreno e aggiustare il tiro piuttosto anche andare avanti con milestone già definite.
Se si trasporta tale mindset a tutto, per esempio alla gestione dei budget, ciò porta a spezzare quello annuale in cicli più brevi, trimestrali o addirittura su base mensile. Per alcuni, fare in questo modo rende più agile e continuo il processo di revisione. Anche la pianificazione annuale ormai serve davvero a poco: a gennaio immagini delle cose per poi accorgerti mesi dopo che non se ne verifica nemmeno la metà”.
E come l’Agile, che si basa sul prendere decisioni rapide in base a quello che sta succedendo, può essere utile nel mondo HR?
“Secondo me sono due i versanti principali: uno è la necessità per chi si occupa di HR di diventare più ‘agile’ in prima persona, dal punto di vista della funzione aziendale così come delle attività e delle competenze. Diventare più agile nelle HR permette di essere più vicini al business: ti porta a lavorare in modo più integrato e multiprofessionale. Bisogna, infatti, smettere di considerare la funzione HR come di supporto al business, ma bisogna invece considerarla ormai come parte integrante. L’approccio Agile aiuta in tal senso. L’altro versante è che l’HR si fa promotore di una cultura organizzativa diversa, portandola agli altri quando non ne sono consapevoli. L’Agile è nato nel mondo del software, con persone che hanno una prospettiva tecnica e tecnologica, e, visto che a volte si fa un po’ fatica a conoscere questo mindset e ad adottarlo, l’HR si deve fare promotore e diffusore di quelli che di fatto sono altri modi di lavorare, affinché un pezzo di tale mindset ci sia dappertutto in azienda. All’HR spetta diffondere la cultura e la formazione connessa e dunque assume un nuovo ruolo che è quello di ambassador di questa cultura, di supporto come abilitatore e di funzione integrata nelle competenze che deve avere”.
Quanto conta la collaborazione di tutte le persone che per esempio sono coinvolte in un processo di recruitment?
“Nell’Agile sicuramente la collaborazione viene favorita come filosofia e come mindset, infatti il tema dell’interfunzionalità è molto forte: è importante che al ‘tavolo di un progetto’ ci siano tutti i ruoli e le competenze necessari per portare avanti un processo dall’inizio alla fine. Un team che peraltro sarà sempre a stretto e continuo contatto con il cliente, sia che sia interno che esterno. Per quel che riguarda il recruiting, utilizzare l’Agile vuol dire coinvolgere sempre di più il business. Chi l’ha detto che il primo step di un colloquio deve essere fatto con l’HR? Magari questi può intervenire successivamente o non fare nessun colloquio, ma “limitarsi” a organizzarlo.
Questo può valere anche per come si porta avanti tutto il processo: anziché iniziare con la creazione del job posting, procedere con la pubblicazione, lo screening, la selezione, il colloquio – quindi essere in un funnel a imbuto lineare – si potrebbe procedere in un altro modo. Ossia lancio il job posting e non appena ricevo le prime 20 candidature – per fare un esempio – le mando subito avanti, non aspetto un mese per chiudere. E dopodiché riguarderò le altre candidature che mi sono arrivate. Se magari non sono in linea posso pensare a un nuovo tipo di job posting, posso continuamente cambiare il processo che così non segue un flusso prestabilito, ma si adatta in base a ciò che succede”.
Può essere un mindset utile anche per l’onboarding?
“Sì, per esempio anziché formare le persone appena assunte nello stesso modo, puntando sulle grandi aule, si può prevedere di differenziare la formazione, cercando di capire quali sono le reali esigenze delle persone. L’Agile può aiutare nella fase di progettazione così come in fase di testing. In Iliad, per esempio, abbiamo organizzato un incontro di 2 ore con l’AD al quale partecipa ogni persona in entrata, a vari livelli. Si tratta di un’aula virtuale in cui insieme all’HR director si parla della storia dell’azienda, della cultura, si guarda all’organizzazione e si conclude con il networking. E tutti possono fare domande. Abbiamo lanciato quest’attività nel gennaio 2021 e hanno partecipato oltre 100 persone. Abbiamo sperimentato sulla base dei feedback, fatto ricerche interne con survey e focus group per capire cosa funzionava e cosa si poteva migliorare. Gli incontri adesso sono ogni 2 mesi e si tratta di un processo inserito a pieno nell’onboarding. In questo caso, l’approccio Agile si fonde con il mondo del design thinking, senza dimenticare che bisogna stare vicino al cliente finale e pertanto capire di cosa ha bisogno”.
E per quel che riguarda l’employee retention: come l’approccio Agile può aiutare?
“Intanto bisogna considerare che non c’è un unico fattore che porta le persone a lasciare un’azienda. Anche in questo caso un approccio il più possibile Agile e data driven, basato sull’ascolto continuo delle persone – con survey, analisi dei processi, del clima in sé fatte con diversi strumenti – può sicuramente aiutare a dare una panoramica dinamica e a individuare i trend emergenti. L’approccio deve essere iterativo e continuo. Anche perché i blocchi di dati fotografano quel momento, ma nel frattempo le cose e le persone cambiano. Il tema è come già detto quello del miglioramento continuo”.
Come l’Agile nelle risorse umane può supportare il lavoro ibrido ed evitare la Great Resignation, aiutando a creare il giusto clima aziendale?
“Dipende da come decidiamo di costruire la nostra policy: se vogliamo farlo in base alle esigenze delle persone o imporre una cosa dall’alto. Ci sono aziende che stanno tornando indietro del tutto, imponendo dei modelli che sono figli di pregiudizi e puntando sulla presenza in giorni fissi a prescindere da tutto.
In un mondo ideale non dovrebbe invece esserci una formula fissa, ma una serie di regole base da cui partire e poi le persone, in accordo con i manager, dovrebbero auto-organizzarsi il più possibile. Ridefinire le modalità del team dovrebbe essere in capo al team. Lo stesso vale anche per gli strumenti tecnologici: in un mondo ideale ogni team dovrebbe scegliere i propri strumenti di lavoro. Certo è vero che così si può arrivare all’adozione di tanti e diversi strumenti in azienda, ma se in alcune cose ha senso avere degli strumenti base si deve comunque optare per quello che fa lavorare meglio i team. Ci deve essere un bilanciamento”.
E qual è il ruolo degli OKR in tutto questo?
“Gli OKR (Objectives and Key Results, ndr) nascono prima dell’Agile, sono delle priorità strategiche che poi si distribuiscono nei team. Il tema, come dicevamo, è che le cose non devono essere imposte dall’alto, ma si prevede ci sia un processo partecipativo in cui le persone non sono passive, anzi contribuiscono agli obiettivi e ai risultati chiave. Utilizzare gli OKR abilita l’allineamento: le persone sanno dove stanno investendo le energie, le proprie risorse. Più che dire cosa fare, io dico spesso che gli OKR devono chiarirti cosa non fare e aiutare chi li usa a stringere sulle priorità. Non si tratta di un framework quantitativo, bensì qualitativo: chiarisce lo scopo, perché si vuole andare in quella direzione, perché si fanno le cose. Utilizzando gli OKR, tutti vedono come stanno andando le cose. Ecco perché considerarli come uno strumento di performance management è sbagliato, sono invece uno strumento di business per distribuire la strategia di business. Hanno una chiave HR perché abilitano lo sviluppo e la crescita delle persone. Non sono un fine ma sono un mezzo per imparare delle cose”.