Aziende in smart working in Italia: oltre i numeri, parlano le persone
Se ne discute, lo si sperimenta a volte, si studia a distanza, magari quello implementato dai competitor, in attesa di un qualsiasi segnale di apertura che ne consenta l’introduzione piena anche nella propria azienda o quanto meno, un piccolo progetto pilota. Si tratta dello Smart Working.
Il fermento intorno a questo concept professionale è innegabile, dal 2012 esiste uno specifico Osservatorio che monitora l’andamento del fenomeno, sia in grandi aziende sia in PMI e pubblica amministrazione, divulgando sintesi, numeri ed esempi sulle scelte organizzativo-gestionali dei professionisti e dei manager coinvolti.
Nel mare magnum dei campioni e delle grafiche, però, rischia di perdersi la ricchezza (e la bellezza) delle esperienze individuali, delle storie personali che restituiscono davvero il significato di alcuni cambi di paradigma – spesso faticosi – e possono portare suggerimenti e spunti su come migliorare il sistema, quali policy siano più efficaci, quali supporti tecnologici risultino più abilitanti.
Questo è il vissuto di Emanuela, quarantenne che, nel momento in cui scrivo, si occupa di comunicazione digitale e brand reputation per una multinazionale, in smart working una volta alla settimana da circa un anno e mezzo.
«Come spesso accade, si parte da una semplice riflessione di buon senso e poi si scopre di avere in mano un potente strumento organizzativo per migliorare il clima aziendale e la produttività individuale.. »
Divento curiosa: «in che senso, Emanuela?»
«Nel senso che, nella mia azienda, si è iniziato a pensare allo smart working come soluzione per andare incontro a colleghi con bimbi piccoli o familiari malati. Era un modo per applicare dei principi di welfare importanti: cosଠsi riducevano i giorni di permesso senza intaccare le ferie. Poi, man mano, i responsabili HR e anche gli stessi manager si sono resi conto che la cosa generava ottimi riscontri, non si notava alcuna differenza tra l’avere la risorsa in prossimità e il ritrovarsi in luoghi virtuali, così la sperimentazione è stata allargata alla maggioranza dei dipendenti dalle professionalità e condizioni estremamente trasversali».
«Ma c’è una categoria professionale che non ti saresti mai aspettata potesse funzionare lavorando da remoto?»
«Beh, intanto vale la pena specificare che smart working e telelavoro identificano condizioni diverse: noi stiamo parlando di €œmarinare€ fisicamente l’azienda una o due volte alla settimana, non di svolgere le proprie mansioni totalmente dall’esterno. Comunque sé: avevo qualche personale perplessità sugli impiegati in funzioni di gestione HR o nelle funzioni più tecniche. Invece mi sbagliavo. In fondo, quel giorno, l’unico cambiamento è che non si fanno riunioni in carne ed ossa»
«Si lavora di più in quel giorno?»
«In realtà non è tanto una questione di lavorare di più o di meno, ma di lavorare meglio. Mi spiego: intanto è un toccasana per la concentrazione. Stare in team è energizzante, ma a volte causa dispersioni e spezzettamenti. In smart working ho tutto il tempo per pianificare, concettualizzare e organizzare le attività , sia per quella giornata che per i giorni successivi. In ufficio hai più lo sguardo sull’immediato, sull’urgente, ma difficilmente riesci a definire un planning di lungo periodo. Invece, io lo trovo fondamentale per restare davvero produttivi»
«E poi non sei mai davvero fuori dal team di lavoro»
«Infatti! Siamo costantemente connessi, si interagisce, condividiamo materiale e scambiamo idee, però, per qualche motivo, il fatto di non essere vicini di scrivania, scoraggia le richieste non urgenti e le interruzioni gratuite».
«Quale altro vantaggio hai registrato?»
«Quando operi da remoto puoi tornare in contatto con te stesso, il tuo valore professionale, il reale contributo che porti all’azienda, insomma: il tuo marchio individuale sul lavoro. Fermarsi a riflettere e rifocalizzarsi è basilare per la motivazione, sia per ruoli consolidati sia per quelli in trasformazione. In questo modo, puoi riuscirci senza avvertire un senso di abbandono o di marginalità ».
«Quindi non sei d’accordo con chi teme che allontanarsi dall’azienda, anche se per poco, inciderà negativamente sulla sua carriera?»
«Penso che, se c’è un problema di scarsa fiducia, di ipercontrollo o di competitività malsana, questo prescinda dall’introduzione dello smart working o dalla gestione di un team virtuale. Siamo a livello di dinamiche caratteriali molto specifiche che non si risolvono fornendo ai professionisti un tablet».
«Il sistema di comunicazione interna può fare la differenza, così come le piattaforme di social collaboration?»
«Senza dubbio. Un eccellente sistema di accesso alle informazioni è fondamentale. Ma credo che sia anche tanto una questione di autodisciplina ed etica. Senza quelle si lavora male anche sotto lo stesso tetto».