Sistemi di retribuzione e indipendenza del Professionista

14.04.2025 - Tempo di lettura: 3'
Sistemi di retribuzione e indipendenza del Professionista

Tra gli argomenti più spinosi nell’ambito legale, quello dei sistemi di retribuzione dei Professionisti è decisamente sul podio. Forse proprio per la sua natura controversa, se ne parla poco all’esterno, mentre se ne discute moltissimo all’interno degli Studi, dove spesso genera confronti anche accesi che degenerano anche in conflitti, fino ad arrivare a uscite e vere e proprie scissioni.

In questo breve articolo non voglio entrare nei meccanismi tecnici che regolano i compensi dei soci: mi interessa piuttosto esplorare come questi sistemi di retribuzione incidono – nel profondo – sulla qualità del servizio offerto. La correlazione può non sembrare così immediata, eppure il modo in cui uno Studio remunera i suoi partner può influenzare in modo decisivo l’indipendenza del giudizio professionale, soprattutto nei momenti in cui un cliente deve ricevere una consulenza delicata o impopolare.

A questo proposito ho trovato molto interessante un saggio di Edward A. Bernstein (a dire il vero un po’ datato ma sempre attuale) pubblicato sulla University of Illinois Law Review, che affronta questo tema con grande lucidità, partendo da un assunto semplice: il sistema di incentivi crea (o distorce) gli allineamenti di interesse tra cliente e Professionista.

Ma i suoi effetti non sono visibili a prima vista. Sono strutturali, nascosti, e per questo più insidiosi.

La letteratura relativa ai sistemi di compensazione nei partenariati, infatti, ha preso in considerazione gli effetti incentivanti all’interno dello Studio e associati a tali sistemi di remunerazione – nonché i benefici che tali sistemi apportano ai soci stessi – ma ha quasi completamente ignorato gli effetti di questa scelta sui clienti dello Studio.

Due modelli, due logiche (e due rischi)

Negli Studi legali esistono due principali modelli di remunerazione dei partner (a cui si aggiungono quelli che prevedono una formula mista tra i due):

  1. “Eat what you kill”: ciascun socio guadagna in base al fatturato che personalmente produce. Il partner è, di fatto, un “libero imprenditore” dentro lo Studio.
  2. “Lockstep”: i soci vengono retribuiti secondo l’anzianità o il contributo nel tempo allo Studio. Il successo (o insuccesso) di un cliente pesa meno sulle finanze individuali.

Nel primo modello, ogni socio ha forti incentivi a trattenere il proprio cliente a ogni costo, perché la sua remunerazione dipende direttamente da lui.

La paura di perdere un cliente può avere alcuni effetti positivi intenzionali sul rapporto avvocato/cliente: un socio che rischia di perdere molto se il cliente si rivolge altrove sarà indubbiamente fortemente motivato a rispondere tempestivamente alle chiamate, consegnare puntualmente il lavoro e lavorare con la massima cura e diligenza.

Sembra efficiente – e in parte lo è – ma tutto ha un prezzo.

Una tale dipendenza può dar luogo a un paradosso: quanto più elevati sono i rischi personali del Professionista – ovvero il compenso che potrebbe perdere in caso di cessazione del rapporto con il cliente – tanto maggiore potrebbe essere la sua propensione ad assecondarne le richieste, anche quando queste non risultano opportune. Tale dinamica, oltre a generare rilevanti implicazioni sul piano individuale, può esporre l’intero Studio a conseguenze critiche, sia sotto il profilo della responsabilità, sia in termini reputazionali.

Non solo. Il modello “eat what you kill” può creare anche un’altra grave stortura (che a sua volta ne determina altre): ridurre i benefici derivanti dalla diversificazione della clientela dello Studio.

Questo punto merita di essere un po’ approfondito. La mancata diversificazione nel contesto del sistema di compensazione “eat what you kill” si riferisce al fatto che ogni partner dello Studio dipende principalmente dai propri clienti per generare reddito, invece di beneficiare di una base clienti condivisa e diversificata dell’intero Studio.

A cascata la mancata diversificazione genera altri problemi.

  • Rischio concentrato: poiché i partner non condividono i benefici di una clientela diversificata, sono più vulnerabili alla perdita di uno o pochi clienti principali. Questo li spinge a dipendere fortemente da relazioni specifiche, aumentando il rischio finanziario personale e professionale.
  • Conflitti di interesse: come già detto, la mancanza di diversificazione può indurre un partner a prendere decisioni che non sono nel miglior interesse del cliente, ma che servono a mantenere il cliente stesso. Ad esempio, un avvocato potrebbe fornire consulenze troppo ottimistiche o conservative per evitare di allontanare il cliente, anche se queste ultime non sono ideali per lui nel lungo termine.
  • Riduzione della collaborazione interna: in un sistema “eat what you kill”, i partner tendono a competere tra loro per accaparrarsi clienti e risorse, piuttosto che collaborare per il bene comune dello Studio. Questo limita la possibilità di sfruttare appieno le competenze collettive e la rete di contatti dello Studio.

Il paradosso dell’avvocato “compiacente”

Concentriamoci sul conflitto di interesse: un partner che dipende fortemente da pochi clienti potrebbe essere tentato di anteporre i propri interessi personali a quelli del cliente per evitare il rischio di perderlo. Giusto per fare un esempio: supponiamo che un cliente chieda all’avvocato se può assumersi un determinato rischio fiscale per chiudere rapidamente una trattativa. Il Professionista sa che sarebbe più prudente consigliare cautela. Ma sa anche che se la trattativa salta o si complica – e il cliente se ne va – perde l’intero fatturato derivante da quel cliente. Potrebbe quindi essere indotto, anche inconsciamente, a “dire di sì” più facilmente, per evitare una perdita personale, anche se la scelta migliore per il cliente, nel lungo termine, sarebbe un’altra.

Ecco il paradosso: l’avvocato può essere tentato di consigliare una scelta non adatta per paura di perdere un cliente, anche quando sa che sarebbe nel suo interesse agire diversamente.

In un sistema “lockstep”, invece, il danno derivante dalla perdita di un cliente viene condiviso tra i partner. Il singolo socio ha quindi maggiori margini per esprimere un giudizio obiettivo, anche quando comporta una decisione scomoda o impopolare. Questo non significa che sia un sistema perfetto – rischia anzi di premiare chi produce poco – ma dall’altra parte è una modalità per attenuare i conflitti tra interesse personale e interesse del cliente.

Il secondo paradosso: il cliente “copertura”

Un altro fenomeno interessante riguarda i clienti aziendali, spesso rappresentati da un manager (CFO, general counsel, M&A lead) che negozia in nome dell’impresa. Questo manager – come ogni figura intermediaria – ha paura di essere incolpato se qualcosa va storto. In gergo, si parla di second-guess risk: la paura di essere giudicato male “a posteriori”.

Per proteggersi, il manager cerca una “copertura esterna”, cioè un consulente – spesso proprio il legale – che convalidi per iscritto o oralmente le scelte fatte. In questo modo, se le cose vanno male, potrà dire: “Me lo ha consigliato l’avvocato”.

Ma anche qui si rischia il cortocircuito: se l’avvocato è pagato secondo il modello eat-what-you-kill, e teme di perdere il cliente in caso di consiglio impopolare, potrebbe validare scelte sbagliate, pur di compiacere il manager. Il risultato? Nessuno dei due agisce in piena autonomia e il danno potenziale per l’azienda aumenta.

E in Italia?

Qualcuno potrebbe obiettare che il testo di Edward A. Bernstein è datato e molto “anglosassone”.

Ma in verità nel contesto italiano, questi rischi sono amplificati da un fattore ulteriore: la totale opacità di tutto quanto attiene ai dati finanziari degli Studi. A differenza degli USA, dove alcune riviste specializzate (come The American Lawyer) pubblicano profitti e performance, in Italia gli studi non sono tenuti a divulgare bilanci, figurarsi i criteri retributivi con cui viene remunerata la partnership. In questo modo, però, i clienti, di fatto, non hanno strumenti per capire se chi li assiste è soggetto a pressioni economiche personali.

Anche il Codice Deontologico Forense non entra nel merito di queste dinamiche. Si concentra – giustamente – su conflitti legati alla difesa di interessi contrapposti, ma non considera i conflitti nascosti legati agli incentivi interni dello Studio.

Che cosa si può fare quindi?

Nella percezione di chi scrive, siamo ancora lontani dal momento in cui gli Studi italiani saranno tenuti a rendere pubblici i propri “economics” e, lo ripeto, figurarsi i sistemi di remunerazione.

Certo, i clienti potrebbero sempre porre il tema nei rapporti fiduciari con lo Studio, chiedendo (in forma riservata) se esistano meccanismi che garantiscano l’indipendenza del singolo Professionista.

Dal canto loro gli Studi legali, invece, potrebbero sfruttare questa informazione come un elemento di posizionamento competitivo.

In un mercato sempre più sensibile alla trasparenza, essere in grado di dimostrare che la consulenza è slegata da pressioni retributive personali può diventare un segno distintivo.

E anche se il periodo sembra non essere quello più favorevole per parlarne, lasciatemi sottolineare che chi predispone il bilancio di sostenibilità, certi dati dovrebbe renderli pubblici.

In conclusione

Il tema del sistema di compensazione negli Studi legali è una questione tecnica ma che tocca, tra le altre, una questione fondamentale a cui non sempre si pensa: quanto possiamo fidarci dell’indipendenza del nostro consulente?

Se davvero, come spesso si ripete, l’avvocato è un “consigliere di fiducia”, allora è lecito chiedersi quanto le sue opinioni siano condizionate da logiche di studio che il cliente non vede.

Il conflitto d’interessi più pericoloso non è quello palese. È quello invisibile.

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