Sempre meno giovani scelgono la professione forense
Partiamo dalla fine: la professione legale è in calo come numero di iscritti e la stessa giurisprudenza perde il 32% degli iscritti. Questa l’estrema sintesi del focus “Fuga dalle professioni” condotta da Il Sole 24 Ore (si veda il Quotidiano di lunedì 14 agosto 2023). Due su tre che nel 2022 hanno cancellato l’iscrizione alla Cassa Forense sono donne under 35, sottolinea nel suo reportage Valeria Uva e in 10 anni – continua la giornalista – a Giurisprudenza gli iscritti sono scesi da 154mila a 104mila e i laureati sono scesi sotto la soglia dei 10mila nel 2022. Dopo la laurea solo uno su tre prende la strada della libera professione, preferendo concorsi pubblici e la carriera aziendale. Ad oggi sono ancora tanti (per alcuni, troppi) gli avvocati in esercizio, superando la soglia dei 240mila. Il calo costante negli anni non è, tuttavia, visto come un dato positivo dai vertici della Categoria, che si interroga su come riavvicinare i giovani ad una delle più antiche e rinomate professioni.
Una professione che viene da lontano
La professione forense in Italia ha una lunga e gloriosa storia alle spalle, che affonda le sue radici nella lontana storia romana, dove il diritto romano ha costituito la base per tutte le future legislazioni moderne. Fino a qualche decennio fa la professione forense era ambita dai giovani come une delle carriere più prestigiose e sicure. Quanti non hanno sentito la fatidica frase “Fai giurisprudenza che apre tutte le porte nel mondo del lavoro”. Tra gli anni ’80 e i primi del 2000 il numero di avvocati è cresciuto in modo esponenziale. Si pensi che tra il 1985 e il 2005 il numero degli avvocati è quintuplicato e nel 2022 troviamo una media di 4,1 professionisti ogni 1.000 abitanti.
In base ai dati dell’ultimo rapporto Censis sullo stato di salute della Professione, il 36,4% dei giovani avvocati ha considerato la possibilità di abbandonare la professione soprattutto per motivi economici, ma non solo. Il 52% dei professionisti del foro resta maschile e le prospettive, dato l’abbandono prevalentemente femminile, è nella direzione di aumentare questo divario.
Dopo i primi anni del nuovo millennio ha avuto inizio un lento declino in termini di numeri e spesso anche di standing. I numeri degli iscritti a Giurisprudenza dopo il boom di “Mani Pulite” sono cominciati a calare e la professione ha attratto sempre meno giovani.
La crisi economica del 2008 ha peggiorato la situazione soprattutto dal punto di vista reddituale per i giovani e per le donne under 35 in particolare. La professione sicura e blasonata un tempo, ha cominciato a non garantire più redditi sicuri; se a ciò si aggiunge l’impossibilità di accedere agli ammortizzatori sociali, la mancata tutela della maternità e di altre situazioni altrimenti regolamentate, ecco la tendenza tra i giovani a dirigersi verso i concorsi in magistratura, piuttosto che nella pubblica amministrazione e, soprattutto, verso la carriera aziendale.
Dopo la pandemia
Ed eccoci al secondo punto di svolta dopo il 2008: la crisi pandemica. La pandemia del 2020 ha dato il colpo di grazia ad un settore già in crisi. Il distanziamento social a cui lo smart working era destinato è stato un ulteriore stress test per la professione. I giovani hanno avuto modo di riflettere e di provare altre forme organizzative più moderne e adeguate al mondo dei Millenials. Ciò, ovviamente, non è piaciuto al dominus, che si è formato secondo standard completamente diversi: pratica professionale assolutamente non retribuita, praticante come ultima ruota del carro; comunicazione in studio ai minimi termini; mancanza di organizzazione interna, pochi strumenti informatici, gelosia del proprio sapere, individualismo imperante.
Il 2020 chiude un lunghissimo periodo storico aprendone uno nuovo, ma chi è ai comandi nello studio è chi si è formato con la “vecchia” mentalità: generalista, uso della carta, accentratore, a capo di tutto, poco incline a fare squadra e più incline a servirsi degli altri, che condividere con loro.
Immaginiamoci un giovane trentenne cresciuto in mezzo alla tecnologia, abituato alla comunicazione, incline a fare team, preoccupato per il lungo percorso che lo attende e scoraggiato dai chiari di luna all’orizzonte, dove il reddito è in calo, trovare clienti è sempre più difficile e aprire il proprio studio è una sfida da super eroi.
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Generazioni a confronto
Queste due generazioni hanno cominciato a convivere negli ultimi anni e a non capirsi. La prima, agita il vessillo del “mi hanno insegnato così”, “con me hanno fatto così”, “se non avessero fatto così, ora non sarei qui”; conseguenza è considerare (come ogni generazione fa con la successiva, d’altronde) i giovani come scansafatiche, molli, non abituati a fare sacrifici, poco determinati. Dall’altra parte della sfida troviamo i giovani che si chiedono se ne valga la pena, se sia questo l’unico modo per fare la professione, dove lo stakanovismo sembra un must. Sempre i nostri Millenials si chiedono se sono disposti a sopportare ambienti di lavoro poco gratificanti, condizioni economiche al limite della dignità, prospettive assenti o molto nebulose. Forse forse si dicono i nostri giovani professionisti – meglio entrare in un ambiente dove la carriera è più chiara, pianificata, così come il lavoro; l’azienda offre più chiarezza, più garanzie, più prospettive. Insomma, l’azienda offre un progetto che quasi sempre lo studio non prevede. In studio è tutto in divenire: “comincia a far bene e poi vediamo”.
Talent attraction
Oggi i giovani – come abbiamo avuto modo di sottolineare in un articolo su questa rivista dove abbiamo affrontato il tema della selezione dei nuovi collaboratori – oggi chiedono un progetto a cui aderire, un percorso di crescita chiaro, delle modalità di lavoro più organizzate e un ambiente più sereno. I sacrifici si fanno se ne vale la pena, se sono finalizzati ad un futuro e non fine a sé stessi.
Come ha reagito fino ad oggi la Categoria? Tante chiacchiere, tanti “bisogna fare”, tanta ricerca di cause e ragioni, ma pochi fatti.
Cosa andrebbe fatto per avvicinare questi due mondi che sono due facce della stessa medaglia? Senza i senior i giovani non apprenderebbero e senza i giovani la professione non ha futuro.
Gli studi legali dovrebbero fermarsi un attimo a riflettere su sé stessi: su quanto sono organizzati, sulla digital transformation, sui progetti che hanno, sul modello di business che seguono, sul brand che hanno costruito, sulle prospettive organizzative, sugli investimenti. Ma soprattutto, sulla mentalità con cui conducono, come un criceto in una ruota, da decenni la professione. Com’è possibile non cambiare approccio, mentalità e strumenti se il mondo tutto intorno sta cambiando completamente?
Le prospettive
Per i prossimi 10 anni ci si aspetta un invecchiamento della professione legale per un insufficiente ricambio generazionale.
La professione ha perso il suo appeal sui giovani e ciò può essere riassunto nelle seguenti ragioni:
- Motivi economici: molti giovani avvocati guadagnano troppo poco e le prospettive non sono incoraggianti.
- Costi elevati: l’iscrizione all’Albo, la formazione continua e le spese operative rappresentano un investimento significativo.
- Ritmi di lavoro: la professione legale è spesso associata a lunghe ore di lavoro e stress elevato.
- Saturazione del mercato: l’elevato numero di avvocati ha reso il mercato del lavoro legale particolarmente competitivo, con tariffe in calo, ma anche la difficoltà nell’acquisizione di nuovi clienti.
- Mancanza di welfare: i giovani avvocati non hanno accesso a ammortizzatori sociali per legge, salvo le previsioni della Categoria o le concessioni caso per caso operate dagli studi.
- Crisi vocazionale: molti giovani non si iscrivono più a giurisprudenza e non sono più attratti dalla professione forense.
Ancora oggi sono soprattutto figli di avvocati a proseguire l’attività di famiglia. Chi non ha legami diretti con la professione preferisce orientarsi altrove.
Se non cambierà rotta, sarà dura attrarre nuovi giovani talenti nel prossimo futuro. Le istituzioni dovranno intervenire per rilanciare l’appeal di questa professione fondamentale per il Paese.