Linguaggio e diversity: liberare il potenziale attraverso le parole
Riflessioni sulla diversity equity & inclusion: il linguaggio come punto di partenza
Da qualche tempo a questa parte mi sto interessando del tema della Diversity Equity & Inclusion. Moltissimo è stato già scritto ma mi domando se non sia comunque utile continuare a parlarne vista la distanza che separa gli studi da una situazione se non ottimale quantomeno soddisfacente.
Per inquadrare il discorso e procedere in modo ordinato, credo che sia utile partire (perdonatemi se la prendo un po’ alla larga) dal linguaggio che usiamo tutti i giorni.
Tranquillizzatevi: non mi dilungherò sulla questione del maschile sovraesteso (in questi giorni tornato alla ribalta dopo che l’Università di Trento ha annunciato di aver approvato il nuovo regolamento di Ateneo scrivendolo tutto al femminile, indipendentemente dal fatto che le persone che vi si designano nei ruoli e nelle cariche siano uomini o donne) e neanche sulla questione se sia meglio usare il termine avvocato invece di avvocata o avvocatessa.
Linguaggio e rispetto nell’ambito della diversity: la libertà delle parole usate con sensibilità
Non lo faccio semplicemente per due ragioni: l’italiano, come è stato ampiamente spiegato dall’Accademia della Crusca e autorevoli linguiste e linguisti, non contempla il genere neutro e, non so se dire in compenso, prevede la possibilità di declinare al femminile i titoli professionali. Esistono delle regole grammaticali da seguire che magari non sono sempre immediate ma, per fortuna, disponiamo tutti almeno di un dizionario online da poter consultare all’occorrenza (per risparmiare a qualcuno -o a qualcuna- la fatica: la forma corretta è avvocata).
La seconda ragione per cui non mi interessa fare delle battaglie per convincere una persona a usare questa o quella forma, è che il principio di fondo che anima il tema della diversity è proprio il rispetto: rispetto dei desiderata in tema di riconoscimento della propria identità e unicità.
Per questo motivo, così come mi sembra corretto accogliere le indicazioni che una persona condivide in merito, per esempio, a quale pronome vuole che si utilizzi quando ci si rivolge a lei, altrettanto credo sia giusto rispettare una professionista che sceglie di farsi chiamare avvocato per tutta una serie di sue ragioni (a proposito delle quali invito caldamente tutti e tutte a leggere Femminili singolari di Vera Gheno, un testo a mio avviso illuminante che, tra l’altro, ben indirizza le resistenze di chi non si sente a suo agio a usare la forma femminile della propria professione).
Chiarito questo, mi interessa partire dal linguaggio per evidenziare un aspetto che forse viene sottovalutato finendo così un po’ ai margini e che, al contrario, io ritengo assolutamente rilevante: il senso di libertà che permea “le parole usate bene” e, ancora prima, la possibilità di rivolgersi alla persona con cui si sta parlando sapendo che quello che diremo la farà sentire a suo agio, accolta, compresa e apprezzata.
L’impatto del linguaggio e degli stereotipi di genere: alla ricerca della libertà e dell’inclusione
Una libertà che personalmente ho cominciato ad assaporare quando ho iniziato a documentarmi per capire meglio che cosa si intende con il termine diversity e soprattutto quando, nel farlo, mi sono resa conto di quanto il nostro modo di parlare sia intriso di stereotipi e bias. Saperlo non basta per liberarsene ma è senz’altro un primo passo importante in quella direzione, a tutto vantaggio di una ritrovata libertà.
Il linguaggio che quotidianamente utilizziamo genera un impatto su di noi, sulle persone intorno a noi e persino sulle persone a cui vengono riferite le nostre parole. Se queste ultime non sono il frutto di una scelta consapevole ma di un’euristica difettosa abbiamo, come minimo, perso una bella occasione per “andare a segno”[1] e, purtroppo forse più di frequente, innescato un qualche meccanismo depotenziante di cui nemmeno ci accorgiamo.
Nei nostri confronti e sulle persone intorno a noi.
E i danni sono enormi. A questo proposito, un dato che trovo sconcertante è l’età a cui le bambine cominciano a rinunciare a credere di poter essere scienziate, presidenti, ingegnere (avete letto bene, è la forma corretta), CEO, astronaute: 5 anni. Cinque.
A colpi di stereotipi e di quelle che Alexa Pantanella in Ben Detto (altro testo di cui consiglio di cuore la lettura) definisce microaggressioni, le donne di domani cominciano a interiorizzare una serie di tossine che, accumulandosi, mineranno la loro autostima generando -se la vogliamo guardare solo dal punto di vista economico e non curarci degli aspetti psicologici- una grave perdita economica per la società tutta, visto che la priveranno della possibilità di beneficiare del loro pieno potenziale.
Questo vale per le donne e per tutte le persone che trovano uno spazio -ancora decisamente troppo piccolo- nelle politiche volte a valorizzare la diversity e a far sì che possa esprimere al meglio il proprio valore.
Ma non solo. Gli stereotipi di genere impattano -in negativo- anche sugli uomini, ingabbiando tutti, ironicamente in modo diverso, in modelli, ruoli, comportamenti e aspettative …di qualcun altro.
Il tema è appassionante e ci tengo a dedicargli uno spazio ulteriore: nel prossimo articolo parlerò dei principali stereotipi e di cosa possono fare gli studi che vogliono fare la loro parte per “Leave no one behind”.
[1] La citazione corretta è “Abbiamo una responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno”, Primo Levi, Dello scrivere oscuro