Non solo Greenwashing: Tutte le forme di marketing fuorviante
Negli articoli precedenti, ho cominciato a introdurre il tema del greenwashing spiegando da dove nasce questo termine, che cosa significa oggi e soprattutto che -gravi- implicazioni comporta una comunicazione di questo tipo.
Implicazioni in grado di alterare le decisioni dei consumatori di fatto orientandoli verso scelte che non corrispondono ai loro desiderata e, in ultima analisi, sabotando quel processo di revisione dei comportamenti di consumo che viene ritenuto necessario per rallentare fino ad arrestare le conseguenze del cambiamento climatico.
In questo contesto era impensabile che non intervenisse il legislatore e, infatti, non è mancata la voce dell’Unione Europea: lo scorso 17 gennaio 2024, il Parlamento Europeo ha adottato la Direttiva contro il Greenwashing e le informazioni fuorvianti con l’obiettivo dichiarato di cambiare radicalmente le abitudini di tutti gli europei allontanandoli dalla cultura usa e getta, rendendo le iniziative di marketing più trasparenti e combattendo l’obsolescenza prematura dei prodotti.
A tal fine la Direttiva si è concentrata in primis sull’etichettatura dei prodotti migliorandola e vietando l’uso di indicazioni fuorvianti – niente più affermazioni come “rispettoso dell’ambiente”, “rispettoso degli animali”, “verde”, “naturale”, “biodegradabile”, “a impatto climatico zero” o “eco” se non supportate da prove.
In seconda battuta, ha anche voluto indirizzare produttori e consumatori a prestare maggiore attenzione alla durata dei beni. In futuro, le informazioni sulla garanzia dovranno essere più visibili e verrà creata una nuova etichetta armonizzata per dare maggiore risalto ai prodotti con un periodo di garanzia esteso.
Le nuove regole vieteranno anche affermazioni infondate sulla durata (come ad esempio affermare che una lavatrice durerà per 5.000 cicli di lavaggio se ciò non corrisponde alla verità in condizioni normali), sollecitazioni a sostituire i beni di consumo prima che sia strettamente necessario (è spesso il caso dell’inchiostro per stampanti) e la presentazione di beni riparabili quando non lo sono.
Non mancano le sanzioni amministrative per contrastare le pratiche commerciali sleali legate al greenwashing: fino al 10% del fatturato medio annuo, calcolato sulla base degli ultimi tre fatturati annui noti alla data dell’illecito, oltre a multe da 5.000,00 euro a 5.000.000,00 euro, in considerazione della gravità e della durata della violazione.
La nuova Direttiva -una volta approvata definitivamente dal Consiglio- lavorerà di concerto con quella contro i Green Claims -al momento in discussione- per regolare, si spera efficacemente, le informazioni dei produttori.
Questo per quanto riguarda l’ambiente.
Ma le forme di washing non sono solo tinte di verde.
Oltre al greenwashing, infatti, ci sono diverse altre forme di “washing” che si riferiscono a pratiche fuorvianti o poco trasparenti riguardo alla sostenibilità. Vediamone alcune.
- Pinkwashing: si riferisce alle iniziative dirette a promuovere un prodotto o un servizio come se fosse pensato per favorire l’empowerment femminile o, più in generale, per veicolare l’immagine di una realtà impegnata sui temi del rispetto, dell’uguaglianza, dell’inclusione senza però che siano state adottate concrete politiche di genere (o, al contrario, che invece siano in essere comportamenti che addirittura le scoraggiano) o essendo stata coinvolta in passato in vicende controverse sul tema.
- Rainbow washing: molto simile al pinkwashing, si verifica quando le aziende sfruttano simboli o eventi legati nello specifico alla comunità o ai temi LGBTQ+ ma solo per migliorare la propria immagine e senza un reale impegno verso la comunità LGBTQ+ (o, di nuovo, avendo tenuto in passato comportamenti contrari).
- Bluewashing: direttamente dal sito dell’Unesco, il termine -di pari passo con il greenwashing- indica “strategie di marketing e comunicazione messe in atto da aziende, enti, organizzazioni e singoli individui per far passare un’immagine di sé attenta all’ambiente e sostenibile. In realtà, queste strategie cercano solo di spostare l’attenzione del consumatore dall’impatto negativo che l’ente coinvolto genera sull’ambiente”. E ancora: “una strategia atta ad aumentare le vendite di un prodotto o migliorare la propria reputazione per acquisire nuovi clienti, aumentare il fatturato o rendersi leader in un determinato settore, senza però impegnarsi davvero per risolvere i problemi e rendere virtuoso il proprio operato. In realtà, la comunicazione che viene portata avanti spesso omette informazioni importanti, che svelerebbero il vero impatto dell’azienda o dell’ente sull’ambiente. Termini generici e poco definiti ingannano i clienti facendo credere che l’azienda stia facendo più di quanto non faccia in realtà.”
- Causewashing: si riferisce alla pratica delle aziende di sfruttare cause sociali o ambientali per scopi di marketing, senza un reale impegno verso tali cause.
Il leit motiv è molto simile e senz’altro la lista non si esaurisce qui.
Ma tra le tante declinazioni possibili, vorrei soffermarmi in particolare ancora su tre neologismi con cui credo dovremo cominciare a familiarizzare.
Il primo è Wokewashing, ossia l’uso strumentale da parte dei brand di temi sociali delicati, come i diritti civili (o anche lo stesso ambiente), per fini commerciali, senza necessariamente supportare tali cause con azioni concrete e anzi, che sostanzialmente vengono messe in atto per un unico obiettivo: incrementare i profitti aziendali. Il wokewashing è ancora più generico del greenwashing perchè non esclusivamente incentrato su temi green come, tanto per ricordarne alcuni, il rispetto dell’ambiente, la riduzione del consumo di plastica per i packaging, l’utilizzo di fibre naturali anche per la produzione di abiti low-cost e sui tentativi di un brand o di un settore di far apparire più sostenibile la propria intera filiera produttiva.
Un esempio di wokewashing per chiarire? L’iniziativa di L’Oréal che ha deciso di eliminare dalle etichette dei propri prodotti termini come “sbiancante” o “schiarente” come segno di vicinanza alla Black community. L’operazione è stata definita “di facciata” dai detrattori che hanno accusato l’azienda di wokewashing ricordandole che in passato aveva invece interrotto collaborazioni con alcuni testimonial proprio a seguito di dichiarazioni di questi ultimi a supporto del movimento Black Lives Matter.
Altro termine interessante è il “brandwashing” che a sua volta è un termine ancora più ampio che include varie forme di pratiche ingannevoli utilizzate dalle aziende al fine di migliorare la percezione del brand o rendere più attraenti i propri prodotti o servizi adottando una serie di tecniche per far sentire la marca “più connessa” al consumatore. Una pratica che sfrutta la c.d. “brand addiction” ossia la vera e propria dipendenza da brand da parte delle persone che, nella sua forma più basica, si sostanzia in acquisti di routine -cioè nella sistematica scelta e acquisto di prodotti di un certo brand solo perchè sono ormai parte delle nostre abitudini quotidiane- e che, invece, in una forma un po’ più sottile -non a caso chiamata “dream stage”- si manifesta quando l’acquirente, disposto anche ad aspettare mesi pur di entrare in possesso di un certo prodotto, quando finalmente lo acquista arriva persino a sentirsi meglio fisicamente.
In un certo senso e per sintetizzare, il brandwashing può essere considerato come il “contenitore” delle tante sfumature di cui si tinge il washing.
Ultima declinazione -qualcuno a questo punto penserà “inevitabile”, considerando quanta attenzione richieda oggi comunicare il proprio impegno verso la sostenibiità- è il c.d. hushwashing ossia quel fenomeno per cui le aziende evitano deliberatamente di comunicare i propri sforzi, spesso per timore di essere accusate di green o altre forme di washing o percependo una crescente sfiducia nei confronti delle affermazioni legate alla sostenibilità.
Un comportamento che, seppure su scala diametralmente opposta, può avere altrettanti effetti negativi, limitando di fatto la trasparenza e la circolazione di quelle informazioni necessarie ai consumatori per prendere decisioni coerenti con i loro desiderata.
Ma non solo. La paura di essere oggetto di critiche nonostante gli sforzi effettivi e il timore di reazioni negative da parte di media, ONG, pubblico e autorità di controllo del mercato finiscono con l’indurre le aziende a rinunciare a comunicare i propri autentici sforzi verso la sostenibilità perdendo così contestualmente anche la fiducia che i consumatori avevano riposto in loro.
Che fare allora stretti nella trappola tra i rischi del washing e quelli del silenzio? Oltre evidentemente a non incorrere in qualche errore per un’inadeguata conoscenza del tema, oltre evidentemente a non mentire né sperare che il proprio comportamento scorretto -quale che sia la sfumatura- non venga notato, direi che vale la pena affidarsi a professionisti competenti, nell’ambito sia della comunicazione sia in quello legale, facendosi assistere da chi è in grado di valutare quali siano le modalità più opportune per rivolgersi ai propri stakeholder.