Domicilio digitale per avvocati: cos’è e come funziona
L’obbligo di diligenza nell’utilizzo e nella gestione della Posta Elettronica Certificata (PEC) rappresenta oggi uno dei cardini della responsabilità professionale dell’avvocato. Con la sentenza n. 134/2024, il Consiglio Nazionale Forense (CNF) ha affermato in modo chiaro l’importanza del costante monitoraggio della casella PEC, stabilendo che la sua trascuratezza configura una violazione degli obblighi deontologici con conseguenze disciplinari significative. Questa decisione del CNF, nata da un caso in cui un avvocato non aveva adeguatamente curato la lettura delle comunicazioni ricevute (e, a dire il vero, aveva poi aggravato la situazione di fatto rappresentando al cliente una situazione diversa da quella che si andava prospettando), offre lo spunto per riflettere sui doveri di probità, dignità, fedeltà e diligenza previsti dal Codice Deontologico Forense (articoli 9, 10, 12 e 26).
Come noto, la PEC è stata introdotta nel nostro ordinamento come strumento di recapito elettronico per certificare e validare le comunicazioni telematiche e si è poi trasformata in domicilio digitale dell’avvocato, attraverso cui transitano tutte le comunicazioni e notificazioni inerenti l’attività professionale; in conseguenza di ciò il controllo della PEC non può essere considerato un semplice onere tecnico, ma diviene un aspetto fondamentale dell’attività professionale, soggetto ai rigidi doveri imposti dal Codice Deontologico Forense.
Il caso sottoposto al CNF, che offre lo spunto per la presente riflessione, riguardava un avvocato che aveva omesso di comunicare a un cliente l’avvenuta notifica di una opposizione a un decreto ingiuntivo; questa omissione determinava l’avvio di un giudizio in contumacia del cliente, che si concludeva con la revoca del decreto. Ad aggravare il quadro delle responsabilità deontologiche vi era la circostanza che, in pendenza del procedimento di merito, il cliente aveva ricevuto rassicurazioni dall’avvocato, che ometteva di fornire aggiornamenti sulla procedura in corso e su eventuali azioni intraprese, violando così gli obblighi di trasparenza e diligenza.
Il Consiglio Nazionale Forense, valutati gli elementi di cui sopra, non poteva dunque far altro che confermare la sanzione di otto mesi di sospensione dall’esercizio della professione già inflitta dal Consiglio di Disciplina, ritenendo che la negligenza nel controllo della PEC configurasse una mancanza di “coscienza e diligenza”, aggravata dal comportamento dell’avvocato che, anziché fornire spiegazioni veritiere, aveva ripetutamente minimizzato la situazione.
In questo contesto, il giudice disciplinare ha evidenziato come l’obbligo di verificare costantemente la PEC sia parte integrante dei doveri professionali dell’avvocato, e come una trascuratezza reiterata nell’assolvere a tale compito possa assumere rilevanza disciplinare. Vista, inoltre, l’importanza cruciale del domicilio digitale nel nostro ordinamento processuale, non è neppure risultata accoglibile la giustificazione fornita dall’avvocato, ovvero che la mancata visione della notifica fosse frutto di una “svista.
Secondo il CNF, tale spiegazione si configurava come un mero “artificio linguistico” per celare un comportamento negligente e contrario agli obblighi deontologici di diligenza e trasparenza. Al contrario si è affermato che l’omissione nel controllo della PEC non può essere degradata a livello di mera svista occasionale, ma costituisce negligenza grave in grado di arrecare danno al cliente e compromettere il rapporto fiduciario.
Il giudice disciplinare ha quindi rigettato le tesi difensive dell’avvocato, riaffermando l’obbligo di diligenza previsto dall’art. 12 del Codice Deontologico, secondo cui l’avvocato deve svolgere ogni incarico con scrupolo e attenzione, garantendo la qualità della prestazione professionale. Questo obbligo include naturalmente anche il controllo delle comunicazioni elettroniche veicolate attraverso la PEC, che rappresenta il principale canale di dialogo con gli uffici giudiziari.
Con l’occasione si è altresì ricordata l’importanza dei doveri sanciti dal Codice Deontologico Forense in forza dei quali l’avvocato deve operare sempre nell’interesse del cliente, evitando qualsiasi comportamento che possa minare la fiducia nei confronti suoi e della professione forense.
In particolare, è bene tenere presente come una lettura combinata degli articoli 9 e 12 porti a considerare che l’attività dell’avvocato deve essere esercitata rispettando precetti fondamentali come diligenza e correttezza, precetti che si riflettono anche nella gestione delle comunicazioni digitali. In tale ottica, il controllo della PEC assume una funzione rappresentativa delle disposizioni in esame: invero, il mancato monitoraggio della casella di posta elettronica certificata è certamente indice di un deficit di diligenza (e correttezza) da parte dell’avvocato.
Inoltre, occorre considerare che il dovere di fedeltà sancito dall’art. 10 impone all’avvocato di adempiere al mandato ricevuto, “svolgendo la propria attività a tutela dell’interesse della parte assistita e nel rispetto del rilievo costituzionale e sociale della difesa”. Nel caso esaminato, il CNF ha giudicato il comportamento dell’avvocato incompatibile con il rispetto di questo principio, poiché non solo il professionista ha omesso di informare il cliente sullo stato della pratica, ma ha anche fornito informazioni errate, aggravando così la situazione
Va infine considerato il dovere di competenza, che il Codice Deontologico Forense disciplina all’art. 14, che certamente impone all’avvocato di ben conoscere l’importanza e il valore giuridico delle comunicazioni a mezzo posta elettronica certificata.
A ciò si può aggiungere che più volte la giurisprudenza ha affermato come sussistano precisi obblighi di controllo e manutenzione della casella PEC da parte dell’avvocato; per tale ragione si è ad esempio affermato che non costituisce esimente legittimante la rimessione in termini la circostanza che una notificazione ricevuta sia stata inserita nella cartella “spam” o “posta indesiderata”. E per lo stesso motivo si è addossata la responsabilità a un avvocato che non aveva potuto prendere visione di un decreto di fissazione di udienza a causa del riempimento della sua casella PEC