Il disconoscimento delle prove digitali
Le tematiche legate all’istruzione probatoria del processo si incrociano sempre più frequentemente sia con quelle relative alla prova digitale sia con quelle legate alla produzione di scansioni di documenti nativi informatici, come ad esempio e-mail o riproduzioni di pagine web.
Le tematiche legate all’istruzione probatoria del processo si incrociano sempre più frequentemente sia con quelle relative alla prova digitale (e da ciò derivano spesso questioni relative alla produzione di detti allegati probatori, questioni che sono state esaminate in un articolo già apparso su questa rivista, reperibile al seguente link: https://www.eclegal.it/deposito-prove-digitali-formati-non-ammessi-dalle-specifiche-tecniche-sul-pct/) sia con quelle legate alla produzione di scansioni di documenti nativi informatici, come ad esempio e-mail o riproduzioni di pagine web.
Si pone in particolare il tema della contestazione di siffatti documenti, che, come noto, deve essere effettuata ai sensi dell’art. 2712 c.c. che così recita: “Le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime“.
Per consolidata giurisprudenza, non è però sufficiente la generica eccezione di difformità dall’originale delle riproduzioni informatiche per escluderne il valore di prova, essendo necessaria l’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà rappresentata.
Così statuisce correntemente in proposito la Corte di Cassazione, secondo la quale: “in tema di efficacia probatoria delle riproduzioni informatiche di cui all’art. 2712 c.c. il disconoscimento idoneo a farne perdere la qualità di prova, degradandole a presunzioni semplici, deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta” (così Cass. 2.9.2016, n. 17526; conf. Cass. ord. 2.10.19, n. 24613).
Si può dunque affermare che la giurisprudenza maggioritaria si attesta su una posizione che non nega efficacia probatoria ai documenti prodotti sotto forma di scansioni e/o riproduzioni fotografiche (per esempio uno screenshot di una pagina web) ma lascia alla controparte l’onere di reazione, mediante appunto il disconoscimento ex art. 2712 c.c., a fronte di tale tipologia di produzione documentale.
Esiste invero una corrente minoritaria e più radicale, che è giunta a negare in radice valenza probatoria ad una riproduzione a stampa o fotografica di pagine web (“Poiché le informazioni tratte da una rete telematica sono per loro natura volatili e suscettibili di continua trasformazione, va esclusa la qualità di documento in una copia di una pagina web su supporto cartaceo che non risulti essere stata raccolta con garanzie di rispondenza all’originale e di riferibilità a un ben individuato momento” – Cass. 2912/04) ma allo stato non appare in grado di scalfire gli approdi giurisprudenziali sopra esposti.
Il breve quadro giurisprudenziale che precede, offre una buona occasione per esaminare anche le strategie processuali legate alla produzione delle prove digitali ed in particolare sul comportamento da tenere laddove il cliente consegni all’avvocato semplici stampe, ad esempio, di e-mail o di pagine web. Come visto la produzione di tali documenti potrebbe essere sufficiente in caso di atteggiamento acquiescente della controparte o potrebbe rivelarsi fallace in presenza di un valido disconoscimento ex art. 2712 c.c.; la domanda che ci si può porre è dunque se sia saggio sposare una condotta processuale che scelga in prima battuta la produzione di tali documenti salvo poi integrare producendo prove digitali in caso, per l’appunto, di disconoscimento?
Ad avviso di chi scrive questa appare una condotta particolarmente rischiosa, che nasconde rischi potenzialmente fatali per l’esito del processo. Si pensi al caso in cui le produzioni in questione vengano effettuate in memoria ex art. 183, VI comma, n. 2 c.p.c. e sopravvenga un valido disconoscimento nella successiva memoria di replica: il documento (scansione o fotografia) perderebbe ogni efficacia probatoria posto che non vi sarebbe più spazio per repliche o, verosimilmente, per richieste di verifica peritale.
A tal proposito il giudice ben potrebbe obiettare che la parte si è assunta il rischio di vedere stravolta la propria strategia processuale non producendo le prove nel formato originale, affidandosi invece a mere riproduzioni parziali dell’originale.
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Cosa fare dunque ove si debbano produrre documenti digitali?
In caso si tratti di allegati semplici da produrre in giudizio, come ad esempio le e-mail, è bene senz’altro produrre il documento originale (in formato eml o msg); laddove invece si tratti di documenti complessi, come ad esempio file di log, estratti di banche dati o pagine web, è bene affidarsi ad un perito informatico che faccia ricorso alle tecniche di digital forensic, ovvero che faccia applicazione della scienza dedicata specificamente al tema dell’acquisizione e dell’esame delle prove digitali (computer forensics si riferisce appunto alle prove acquisite da computer e altri dispositivi di memorizzazione digitale).
Detta scienza è regolamentata da specifiche norme ISO (la più importante delle quali è la 27037:2012) e prefigura un procedimento che si articola in 4 fasi:
- identificazione: il processo che comporta la ricerca, il riconoscimento e la documentazione di potenziali prove digitali
- raccolta: il processo che comporta il prelievo del dispositivo fisico contenente i dati
- acquisizione: creazione di una copia esatta dei dati che contengono un elemento di interesse significativo per l’indagine
- conservazione: processo che consente di dimostrare come la prova digitale sia rimasta integra e immutata.
È particolarmente importante riflettere sul concetto di acquisizione, che avviene creando una immagine forense (bitstream image), cioè un duplicato esatto, bit per bit, dei dati presenti nel reperto originario da preservare e sottoporre a successiva analisi.
La genuinità dell’immagine forense rispetto ai dati originali e la garanzia di inalterabilità sono ottenute mediante il calcolo del valore di hash (viene in pratica calcolata l’impronta di tutti i file oggetto di acquisizione / es. una pagina web può comprendere molti oggetti da acquisire).
Attraverso tale tecnica si previene dunque in ogni caso il rischio di un disconoscimento documentale della controparte e si cristallizza la prova offerta in giudizio; è dunque particolarmente opportuno che se ne faccia ricorso anche in ambito civile in modo da non prestare il fianco a forme di disconoscimento, magari ben articolate, che possano portare a negare valore probatorio a documenti decisivi per le tesi difensive.