I criteri di chiarezza e sinteticità nella riforma del processo civile
Riforma del processo civile
Come noto, la riforma del processo civile ha codificato il principio di chiarezza e sinteticità degli atti processuali intervenendo sull’art. 121, la cui rubrica recita ora: “Libertà di forme. Chiarezza e sinteticità degli atti”. In chiusura dell’unico comma del suddetto articolo è stata poi inserita la previsione secondo cui “tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico”.
Va subito detto che non si tratta di disposizione rivoluzionaria posto che questi principi, seppur non espressamente codificati, sono da tempo considerati applicabili agli atti processuali, in particolare perché giustamente considerati come una delle modalità di concreta attuazione del giusto processo ex art. 111 Cost. Inoltre, prima dell’introduzione della norma in commento, esistevano già indici normativi e giurisprudenziali che facevano propendere per la loro operatività nel processo civile.
Innanzitutto occorre ricordare che l’art. 16-bis, comma 9-octies (ora abrogato) prescriveva che gli atti e i provvedimenti depositati telematicamente dovessero essere redatti in maniera sintetica. Inoltre, la Corte di Cassazione affermava correntemente che il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali, fissato dall’art. 3, comma 2, del c.p.a., esprimeva un principio generale del diritto processuale, destinato a operare anche nel processo civile, ed esponeva il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, non già per l’irragionevole estensione del ricorso (la quale non è normativamente sanzionata), ma in quanto pregiudica l’adeguata intellegibilità delle questioni, qualora renda effettivamente oscura l’esposizione dei fatti di causa e così confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 cod. proc. civ., assistite – queste sì – da una sanzione testuale di inammissibilità” (v. ad esempio Cass. 13 febbraio ’23, n. 4300).
Come si vede, pertanto, la novella non ha innovato il panorama legislativo, limitandosi a codificare un principio ormai immanente al nostro ordinamento processuale. Semmai si può riflettere sulla portata precettiva del nuovo art. 121 c.p.c., che in effetti non prevede alcuna sanzione per violazione dei principi di chiarezza e sinteticità; a tal proposito la dottrina afferma che si tratta di precetto di per sé privo di portata normativa che al più risulta dannoso per l’autore (v. Luiso, Il nuovo processo civile, Milano, 2023, pp. 27-28). La vera sanzione può essere perciò, per così dire, di secondo grado e può derivare dal fatto che la mancanza di tali requisiti pregiudichi l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure sollevate (Cons. Stato, 1 dicembre ’20, n. 7622).
Come si possano declinare i nuovi requisiti all’interno degli atti processuali
Appare opportuno indagare su come si possano declinare i requisiti elencati sopra all’interno degli atti processuali, partendo dalla considerazione che troppo spesso essi sono stati considerati un’endiadi dalla giurisprudenza quando invece essi esprimono concetti differenti e che possono essere addirittura in antitesi tra loro.
Il requisito della chiarezza e della sinteticità
Il requisito della chiarezza rimanda infatti alla comprensibilità dello scritto, alla corretta strutturazione delle frasi e anche, perché no, al corretto rispetto delle regole grammaticali; ciò non vuol dire, però, che un atto chiaro sarà anche sintetico, soprattutto se interpretiamo l’aggettivo nel senso che traspare chiaramente dopo l’adozione del dm n. 110 del 2023. È indubbio, infatti, che l’introduzione dei limiti dimensionali per gli atti relativi alle cause di valore inferiore a € 500.000,00 abbia rivelato come, secondo il nostro legislatore, il requisito della sinteticità debba essere inteso alla stregua di criterio meramente quantitativo; possiamo dunque estremizzare il concetto esprimendo la seguente formula:
atto ben scritto + atto corto = atto perfetto
Sennonché non è affatto facile assicurare tutti questi requisiti; o meglio, occorre distinguere. È certamente legittimo pretendere chiarezza degli atti processuali ed è certamente un dovere (anche deontologico) dell’avvocato assicurare il rispetto di tale requisito; è invece diverso per la sinteticità quando la si intenda come mero limite dimensionale: a volte essa non può essere rispettata per cause che sfuggono al controllo dell’avvocato e sono invece riconducibili a responsabilità del legislatore o della giurisprudenza, come ben chiarito dalla dottrina (v. F. De Giorgis, “Le disposizioni generali in materia di chiarezza e sinteticità degli atti processuali nella riforma Cartabia”, reperibile al seguente indirizzo: https://www.judicium.it/le-disposizioni-generali-in-materia-di-chiarezza-e-sinteticita-degli-atti-processuali-nella-riforma-cartabia/#_ftn61 ). Sono, infatti, da annoverare tra i fattori che dilatano gli scritti di parte: (i) le preclusioni di cui sono costellati i nostri procedimenti, anche nelle fasi di impugnazione; (ii) l’onere di contestazione specifica delle allegazioni avversarie; (iii) la tendenza giurisprudenziale a estendere il più possibile l’oggetto del giudizio e del giudicato, che induce i difensori a prendere posizione anche su questioni che in un’altra epoca sarebbero passate sotto silenzio; (iv) l’applicazione irragionevole del principio di autosufficienza, che porta gli avvocati a trascrivere porzioni di atti e documenti per non incorrere in declaratorie di inammissibilità del ricorso per cassazione; (v) l’onere di censurare tutte le rationes decidendi che sorreggano la decisione del giudice inferiore, onde evitare l’inammissibilità della relativa impugnazione.
In questi casi, non infrequenti, l’avvocato si trova costretto a spendere più parole a tutela del proprio cliente e male farebbe ad autocensurarsi accorciando i propri testi. Si pone allora il problema di come risolvere questa impasse che potrebbe portare, secondo la logica del d.m. 110 del 2023 e dell’art. 46 disp. att. c.p.c., a sanzionare in punto spese un atto magari assai chiaro ma eccedente i limiti dimensionali fissati dal legislatore.
La soluzione per evitare una conclusione così iniqua sembra però essere reperibile nello stesso ordinamento processuale e passa per due fasi:
- innanzitutto sarà opportuno accedere a una interpretazione del concetto di sinteticità come di “non ridondanza” dell’atto, ovvero: si definisce sintetico l’atto privo di ripetizioni e duplicazioni di concetto (e in questo senso ci si avvicina molto al concetto di chiarezza);
- in secondo luogo occorrerà fare sapiente uso della facoltà concessa dall’art. 5 del d.m. 110 del 2023 (“I limiti di cui all’articolo 3 possono essere superati se la controversia presenta questioni di particolare complessità, anche in ragione della tipologia, del valore, del numero delle parti o della natura degli interessi coinvolti. In tal caso, il difensore espone sinteticamente nell’atto le ragioni per le quali si è reso necessario il superamento dei limiti”).
Ove necessario, sarà pertanto opportuno, che il difensore riservi una sezione del proprio atto giudiziario per esporre i motivi che lo hanno costretto a superare i limiti dimensionali onde evitare una riduzione delle spese liquidate.
A proposito di quest’ultimo punto appare opportuna una precisazione: in caso di parte vittoriosa non si porrà un problema di soccombenza sulle spese e pertanto essa non potrà essere condannata a pagare le spese di giudizio; semmai il giudice potrà spingersi sino al limite della compensazione, non oltre.