Comunicare la sostenibilità. Attenzione a non sbagliare registro. Seconda parte
Nell’articolo precedente, ho proposto alcune riflessioni riguardanti il complesso tema della comunicazione della sostenibilità, evidenziando alcuni punti fermi -in mancanza di una convergenza sui quali è difficile poter procedere nel discorso- e alcune prime difficoltà correlate agli impatti psicologici che un certo tipo di messaggio provoca sui destinatari, ottenendone o l’immobilismo o un comportamento diametralmente opposto rispetto a quello desiderato.
Continuando nell’esplorazione, anche la sovrabbondanza dell’uso del termine “sostenibilità” non è un fattore che gioca a favore della diffusione di ciò che veramente significa.
In molti, ormai, pensano che la parola stessa “sostenibilità” abbia come minimo stancato se non addirittura perso ogni credibilità: il fatto che vi sia un’attenzione crescente da parte dei consumatori verso il tema ha spinto le aziende a cavalcare questo interesse, spesso indipendentemente da un reale impegno in tale direzione.
Espressioni che rimandano in primis a temi ambientali, il colore verde, loghi di ogni tipo di certificazione e, appunto, la parola stessa “sostenibilità” sono ormai diventati dilaganti. Ricordo che è stato proprio l’eccesso di riferimenti al termine “green” nelle sue varie forme che ha convinto l’Unione Europea a adottare una proposta di Direttiva per regolamentare i c.d. Green claims. Obiettivi dell’Unione: restituire dignità e verificabilità alle dichiarazioni “verdi”, proteggere i consumatori dal greenwashing e contribuire alla creazione di un’economia circolare e verde dell’UE, consentendo ai consumatori di prendere decisioni di acquisto informate. Non da ultimo, anche per contribuire a creare condizioni di parità e confrontabilità quando si tratta di prestazioni ambientali dei prodotti – prestazioni che, ad oggi, anche per un consumatore mediamente informato, è davvero difficile riuscire a valutare.
Ma questa sovrabbondanza di informazioni non genera solo “noia” ma anche una indesiderata uniformità: le espressioni utilizzate e le descrizioni come: “Siamo impegnati a proteggere il nostro pianeta per le future generazioni. Insieme, possiamo proseguire nel nostro viaggio verso la sostenibilità, affrontando la più grande sfida di tutti i tempi: costruire un mondo migliore, a tutto vantaggio dell’ambiente, delle nostre comunità e delle nostre imprese” sono tanto piene di cliché quando prive di originalità, al punto da poter essere utilizzabili da una qualunque organizzazione, indipendentemente dal suo settore di appartenenza e attività svolta.
È indispensabile, invece, senza con questo voler deprimere la creatività di chi si occupa di comunicazione, che, innanzitutto, l’impegno descritto sia coerente con il purpose dell’impresa (o dello studio, ci tengo sempre a sottolinearlo) e sempre basato su fatti e dati dimostrabili.
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La veridicità delle informazioni è imprescindibile -e di questo ho già parlato in altri articoli- così come è fondamentale trovare un registro di comunicazione di “facile fruizione”: l’uso di espressioni gergali e anche la presentazione degli stessi dati spesso rendono complesso trasferire, ad alcune categorie di interlocutori, una fotografia chiara del fenomeno. Come si può ovviare alla intrinseca freddezza del dato? Per esempio, utilizzando immagini ed evocando suggestioni molto più vicine alla quotidianità che diano un’idea più immediata di quanto descritto.
Un ulteriore elemento di complessità è dato dal fatto che la sostenibilità di fatto richiede un cambiamento: nelle persone, di valori, di abitudini e di utilizzo delle risorse. Questo a livello individuale. Ma lo stesso accade a livello aziendale: anche alle imprese viene chiesto di mutare pelle, di ripensare alle ragioni della loro stessa esistenza, di fare innovazione, di orientare i comportamenti delle persone che vi operano anche riscrivendone il ruolo e ridefinendo i processi che le coinvolgono. A tutti, insomma, si chiede di fare una delle cose più difficili: cambiare. Molti in questo vedono un’opportunità, tanti altri invece vedono una sfida che non hanno voglia né tempo di affrontare.
Si chiede di cambiare anche e soprattutto ai comunicatori: il registro di riferimento non è più quello che trova la sua ragion d’essere nella realizzazione di un profitto “a tutti i costi” e che deriva dalla declinazione di un modello economico basato sul consumo sfrenato e lo sfruttamento senza regole delle risorse. Il nuovo sistema chiede, invece, di abbandonare le vecchie regole della comunicazione, quelle per cui si doveva, attraverso un monologo ben costruito (ma pur sempre un monologo) convincere le persone ad acquistare e consumare prodotti e servizi il più in fretta possibile, persuadendole di avere dei bisogni da soddisfare.
La nuova narrazione, che deve essere positiva ed evitare di ricorrere ai sensi di colpa, è improntata sulla necessità di informare, assicurandosi di far comprendere non già la qualità del prodotto in sé, quanto piuttosto l’impatto positivo dell’adozione di un nuovo stile di vita, aprendosi a un dialogo onesto e trasparente.
In sintesi: si tratta di una comunicazione capace, prima, di comprendere chi sono e, poi, di mettere al primo posto, per davvero, i tanti pubblici di riferimento. Sulla scorta di ciò che per loro è importante, comunica bene chi è in grado di trovare un equilibrio tra semplice e specifico, senza scadere mai nel semplicistico o nelle generalizzazioni, chi riesce a personalizzare il messaggio rendendolo un’espressione del brand che rappresenta, chi sceglie un “tone-of-voice” adatto e, la lancio come sfida, chi evita di usare la “parola che inizia con la s”.
A parte il fatto che spesso ad essa sono associati dei bias che è difficile contrastare -per esempio l’idea che vi sia sempre un sovrapprezzo da pagare- il fatto di dover rinunciare a condensare altri concetti in una parola sola, può essere un esercizio molto efficace per concentrarsi sui diversi aspetti che essa racchiude, evidenziarli come meritano dando loro il giusto respiro.