Come riconoscere quando un’azienda fa greenwashing?
“Una forma di appropriazione indebita di virtù e qualità ecosensibili per conquistare il favore dei consumatori o, peggio, per far dimenticare la propria cattiva reputazione di azienda le cui attività compromettono l’ambiente”[1] o ancora “È greenwashing quando un’affermazione sulla sostenibilità contiene informazioni false o capaci di ingannare consumatori, investitori e altri partecipanti al mercato, oppure quando vengono omesse informazioni rilevanti per le loro decisioni”[2] – queste sono solo due delle tante definizioni che, una volta creato il neologismo greenwashing, sono state date a questo termine.
Prima di addentrarci ad esplorare le tante sfumature del termine washing – perché, come ormai ben sappiamo, l’ambiente non è l’unica dimensione da prendere in considerazione e anche il washing interessa tutte le aree ESG – credo sia utile analizzare le diverse modalità con cui il greenwashing si manifesta in concreto.
Avendo chiaro che l’obiettivo di questo tipo di comunicazioni è da un lato allargare il proprio bacino di utenza attraendo i consumatori attenti alla sostenibilità e, dall’altro, distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da eventuali difetti del prodotto o dai danni per l’ambiente procurati dalle proprie attività produttive, in quanti modi si possono ingannare i consumatori?
Sulla base di uno studio condotto nel 2007 da TerraChoice, sono stati individuati i c.d. sette peccati capitali del greenwashing.
- Affermazioni non pertinenti: si suggerisce che un prodotto è green in base a un irragionevole insieme di attributi di poco conto, magari senza focalizzare l’attenzione su altri problemi ambientali ben più importanti che il prodotto comporta.
- Assenza di prove, ovvero affermare che un prodotto è green senza che questa informazione possa essere sostenuta da chiare evidenze o da una certificazione credibile di terze parti. È il caso di affermazioni come “I nostri prodotti sono rispettosi dell’ambiente”, per cui poi non vengono fornite né analisi del ciclo produttivo o di vita, né certificazioni rilasciate da enti terzi.
- Approssimatività di affermazioni così poco definite o talmente ampie che il loro significato reale viene probabilmente equivocato dal consumatore. Si pensi ad espressioni come “Solo ingredienti naturali”, “Realizzato con metodi amici dell’ambiente”, “Fatto come una volta”.
- Proposte falsamente accattivanti, quando un marchio o uno slogan, comunicato attraverso parole, immagini o entrambe dà l’impressione che esista un’approvazione o una certificazione positiva di un prodotto che, in realtà, non c’è. “Il nostro prodotto ha conseguito la certificazione XXXX”, con tanto di logo anche se la XXX in realtà non esiste.
- Irrilevanza di dichiarazioni ambientaliste che potrebbero essere anche veritiere, ma sono di scarsa o nulla importanza per i consumatori che privilegiano comportamenti o prodotti orientati all’ambientalismo. Le informazioni fornite sono vere ma non attengono al concetto di sostenibilità ambientale (ad esempio, “senza CFC” non ha alcun significato visto che i clorofluorocarburi sono vietati dalla legge dal 1990).
- Attribuzione di caratteristiche che non sono esclusive, ovvero affermazioni che possono essere vere per l’intera categoria dei prodotti ma non necessariamente solo per quello pubblicizzato. Per esempio: “bere molta acqua XXX fa bene” che può essere vero in assoluto ma non necessariamente con riferimento all’acqua della marca pubblicizzata.
- Raccontare frottole, ovvero affermare proposizioni ambientaliste o sociali che sono, semplicemente, false [3] .
Perché è importante analizzare le modalità con cui il greenwashing si manifesta?
È proprio il caso di dire che dipende dal tipo di stakeholder: per i consumatori è importante sapere come si può essere ingannati per sviluppare una maggiore consapevolezza ed orientarsi verso scelte corrette; per i comunicatori e le aziende è importante conoscere le trappole in cui potrebbero incappare ed evitare così di compiere errori grossolani, magari in buona fede, che si traducano in danni di immagine e perdita di fiducia da parte del mercato; per gli avvocati che saranno chiamati a difendere clienti accusati di comportamenti scorretti, perché è importante poter contare su di un ulteriore bagaglio di informazioni che possano aiutarli ad affiancare al meglio i loro assistiti.
Un’ultima riflessione. Trovo interessante anche sottolineare che il greenwashing non è peculiarità di un settore specifico ma interessa tutti i comparti, produttivi e di servizi, compreso quello finanziario.
Avviene quando le comunicazioni di banche, società di investimento, compagnie assicurative non riflettono in modo chiaro e corretto il profilo di sostenibilità di un ente, per esempio sostenendo di contribuire alla riduzione delle emissioni globali di anidride carbonica o alla lotta contro la deforestazione salvo poi prestare denaro a società che, rispettivamente, costruiscono centrali elettriche a carbone o la cui attività è collegata alla deforestazione dell’Amazzonia.
Ancora. È il caso di quelle realtà che affermano di avere a cuore il benessere dei dipendenti ma poi li discriminano o non ne tutelano i diritti, di quelle che promuovono come sostenibili fondi che poi investono in aziende con un impatto negativo sull’ambiente, o ancora di quelle che sostengono di essere impegnate a ridurre le emissioni di anidride carbonica connesse alla propria attività ma poi sono prive di un piano credibile o non forniscono informazioni sulla propria impronta di carbonio.
Volendo sintetizzare, falsità e omissioni sono i principali motori dell’inganno, a cui si aggiungono (e che si declinano in) affermazioni parziali, selettive, non chiare, incomprensibili, vaghe, semplicistiche, ambigue, non tempestive o non dimostrate.
[1] Valentina Furlanetto, L’industria della carità, p. 156
[2] Banca d’Italia https://economiapertutti.bancaditalia.it/notizie/che-cos-il-greenwashing-e-come-ci-inganna/
[3] Bolognini Cobianchi, Aldo. Comunicare la Sostenibilità (Italian Edition) (pp.158-159). Hoepli.