Affrontare i Bias, stereotipi e pregiudizi nel contesto legale: strategie efficaci
Nello scorso articolo ho cominciato a introdurre il tema della diversity equity and inclusion.
Mi concedo ancora questo spazio per arrivarci per gradi anche perché trovo che sia indispensabile comprenderne appieno le basi per apprezzarne l’importanza e la portata.
Come sempre quando si approccia un argomento nuovo e si comincia a cercare di approfondire le ragioni per le quali è diventato attuale, si apre un mondo di testi, articoli, ricerche e statistiche che hanno nel tempo studiato motivazioni, impatti e conseguenze che generano determinati comportamenti. Le varie discipline si intersecano e trovare la via -più spesso il tempo veramente- per procedere in modo ordinato non è sempre semplice.
Davanti alla potenziale mole di lavoro, il nostro cervello, già immensamente sovraccarico, fa quello che si chiede a un organo votato per necessità all’efficienza: taglia corto.
Per farlo si affida a quanto ha già appreso in passato dal confronto con le altre persone, con il contesto, con le parole che ha letto e sentito, persino con le sue paure e tenendo conto del giudizio degli altri.
E questo bene introduce i concetti che vediamo ora di approfondire.
Come fa il cervello a “tagliare corto”? Lo fa attraverso le c.d. euristiche, scorciatoie mentali con cui arriva rapidamente a delle conclusioni che -fino a questo stadio- non sono ancora giuste o sbagliate ma al più un po’ limitanti visto che, appunto, frutto della necessità di semplificare una mole troppo ampia di dati.
I risultati prodotti dalle euristiche però possono trasformarsi rapidamente in bias o in stereotipi: da lì, scivolare nel pregiudizio è un attimo.
Per capire meglio di che cosa si sta parlando, faccio un rapido affondo sui termini, demandando ai più curiosi il compito di approfondirli autonomamente -un piccolo obolo di tempo che sarà del tutto ripagato dall’avere capito qualcosa di più su un argomento affascinante: come funziona il nostro pensiero.
La parola euristica, per chi ha studiato greco, non sarà un mistero: “trovare, scoprire”. Citando la Treccani “[…] qualsiasi procedimento non rigoroso (a carattere approssimativo, intuitivo, analogico, ecc.) che consente di prevedere o rendere plausibile un risultato, il quale in un secondo tempo dovrà essere controllato e convalidato per via rigorosa.”
Questa definizione ha già fatto suonare qualche campanello?
Confido vivamente in una risposta affermativa.
Per sicurezza, comunque, sottolineo la seconda parte e cioè quella in cui si chiede di controllare e convalidare in modo rigoroso quello che si è pensato -più spesso detto e, quando le cose si mettono proprio male, anche scritto.
Che cosa è invece un bias? Il termine, per brevità, significa “obliquo, inclinato” e, tra le tante spiegazioni, mi pare che la più efficace sia quella che lo descrive come una forma di distorsione della valutazione causata o condizionata da concetti preesistenti. Entriamo nel vivo con un esempio: ricorriamo a un’euristica quando dobbiamo decidere se un numero a 8 cifre (ma anche meno) è pari o dispari: guardiamo l’ultima cifra e se è pari sappiamo che anche il numero lo è. Un’operazione che ci costa pochi attimi e altrettanto modesti sforzi e che non restituisce un’informazione di per sè buona o cattiva: ci fa semplicemente risparmiare tempo (salvo quello eventuale del recuperare le dimostrazioni matematiche del caso).
Quando le euristiche si trasformano in bias? Considerato che ve ne sono circa 200 tipi non è immediato semplificare ma, tanto per introdurre qualche spunto, un bias si verifica quando le nostre conclusioni sono figlie di una caratteristica che diventa talmente dominante da informare l’intero -per es quando una persona non viene considerata nella sua interezza ma in quanto donna, uomo, giovane, anziano, ecc. – (bias di ancoraggio) oppure quando sono legate a una selezione delle informazioni che tende a privilegiare quelle che confermano ciò di cui già si è convinti (bias di conferma).
Gli esempi non si esauriscono certo qui. Un bias si verifica quando si attribuiscono le proprie azioni o ciò che ci accade a cause esterne mentre i comportamenti degli altri a cause interne (se va male un meeting importante è per colpa del jetlag, se succede al/alla collega è perché è incompetente) o ancora quando si è convinti di aver previsto esattamente come sarebbero andate le cose dopo che queste sono già accadute e concluse (bias del senno di poi).
I bias sono buoni o cattivi? Direi che più che altro sono fallaci e, come tali, possono esserlo nel bene o nel male. Non a caso esiste un bias dell’ottimismo che si verifica quando si pensa che non possa mai succedere niente di brutto o negativo -o che, comunque, le probabilità siano scarse.
In generale è molto facile riconoscerli negli altri, molto meno in se stessi: per questa ragione (spoiler), all’interno di un’organizzazione, un sistema molto efficace per riconoscerli e ridurli il più possibile è ingaggiarsi reciprocamente chiedendo a tutti (mi sento di dire con i dovuti modi) di farli notare quando si verificano. Particolarmente quando si sta per prendere una decisione importante senza farsi fuorviare o influenzare da fattori che rischiano appunto di condurre a conclusioni fallaci.
Facciamo un passo avanti.
Che cosa è invece uno stereotipo? Uno stereotipo è un insieme rigido e semplificato di caratteristiche che i/le componenti di un certo gruppo sociale attribuiscono a un altro gruppo, considerandolo come insieme unico e indistinto, senza fare nessun ragionamento critico né verifica su eventuali differenze, sfumature o eccezioni che possano esserci in quel gruppo. Tornando all’etimologia, uno stereotipo è un’impronta (týpos) che appiattisce una moltitudine di esseri umani in un unicum rigido (stereós), impronta che si ripete identica e incurante delle differenze e dei cambiamenti che quella moltitudine di fatto manifesta.
Semplificando, gli stereotipi sono considerazioni basate su una generalizzazione che prescinde dall’osservazione diretta dei singoli casi e la precede. Il tempo, oltre che la mancanza di prove, è una caratteristica rilevante perché la persistenza rende tali generalizzazioni -come si dice- dure a morire.
È vero che gli stereotipi (come le euristiche) ci permettono di sopravvivere in un mondo complesso risparmiando tempo e guidandoci verso decisioni che comporterebbero un grande dispendio di risorse ed energie. Ma il problema è quando ad essi si associa un valore, un giudizio, una considerazione che può portare a delle azioni discriminatorie, denigratorie dando origine a ciò che viene definito pregiudizio.
Stereotipi e pregiudizi investono, tra gli altri, tutti i tratti identitari delle persone: orientamento sessuale, espressione di genere, abilità, razza, credo politico o religioso, status sociale, età.
Finché non si comincia ad approfondire l’argomento non si ha fino in fondo contezza di quanto ne siamo inconsapevolmente pervasi e portatori “sani”, ben nascosti dietro a “è un modo di dire”, “è solo una battuta”.
Ma il problema è proprio questo: non è possibile eliminare gli stereotipi (in realtà non è proprio possibile) se prima non si impara a riconoscerli.
E non è possibile pensare di implementare all’interno di un’organizzazione le politiche DE&I se, contestualmente, non si lavora sul livello di consapevolezza delle persone a cui sono indirizzate.