ACdat: di chi dovrebbe essere la proprietà dell’ambiente di condivisione dei dati?
Il D.M. del Ministero delle Infrastrutture e trasporti del 1 dicembre 2017, n. 560, adottato in “Attuazione dell’articolo 23, comma 13, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, “Codice dei contratti pubblici” all’art. 2, comma 1, lett. a), rubricato “Definizioni”, recita: “Ai fini del presente decreto si intende per: a) ambiente di condivisione dei dati, un ambiente digitale di raccolta organizzata e condivisione di dati relativi ad un’opera e strutturati in informazioni relative a modelli ed elaborati digitali prevalentemente riconducibili ad essi, basato su un’infrastruttura informatica la cui condivisione è regolata da precisi sistemi di sicurezza per l’accesso, di tracciabilità e successione storica delle variazioni apportate ai contenuti informativi, di conservazione nel tempo e relativa accessibilità del patrimonio informativo contenuto, di definizione delle responsabilità nell’elaborazione dei contenuti informativi e di tutela della proprietà intellettuale”.
L’Ambiente di Condivisione dei Dati, conosciuto anche tramite il suo acronimo ACDat, è l’equivalente italiano di quello che in lingua inglese viene definito “Common Data Environment”, noto anche agli addetti ai lavori con l’acronimo CDE.
L’ACDat o CDE, che dir si voglia, in ambito BIM è di fondamentale importanza perché, appunto, è il “luogo” dove si raccolgono in modo organizzato e si condividono i dati relativi all’opera da realizzarsi. In altre parole è dove risiedono le informazioni necessarie per la realizzazione dell’appalto attraverso l’approccio metodologico BIM.
Prima dell’entrata in vigore del D.M. 560/2017 il Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, infatti, nella “relazione di accompagnamento alla consultazione pubblica sul decreto per la modellazione elettronica” definiva l’ACDat come “un ecosistema digitale in cui i dati strutturati principalmente attraverso il modello informativo sono, qualora possibile, prodotti, raccolti e condivisi in base a criteri contrattuali, a principi giuridici sulla tutela della proprietà intellettuale e a dispositivi di protezione della sicurezza dei dati”
Ma a chi dovrebbe appartenere secondo il nostro ordinamento l’ACDat?
L’art. 3, comma 1, lett. c) del D.M. 560/2017, statuisce che: “L’utilizzo dei metodi e strumenti di cui all’articolo 23, comma 13, del codice dei contratti pubblici è subordinato all’adozione, anche a titolo non oneroso, da parte delle stazioni appaltanti”, tra l’altro di: “un piano di acquisizione o di manutenzione degli strumenti hardware e software di gestione digitale dei processi decisionali e informativi, adeguati alla natura dell’opera, alla fase di processo ed al tipo di procedura in cui sono adottati”.
Prerogativa, secondo il citato articolo, perché una stazione appaltante possa bandire una gara con l’approccio metodologico “BIM” è che si doti, tra le altre cose, anche di un piano di acquisizione e manutenzione della tecnologia necessaria.
Ne deriva che anche l’ACDat, basandosi su di una infrastruttura informatica e necessitando di software vari per il suo funzionamento, può a buon diritto ritenersi ricompresa tra quella dotazione di “strumenti hardware e software di gestione digitale dei processi decisionali e informativi” che deve obbligatoriamente far parte della dotazione della committenza.
L’art. 3 del D.M. 560/2017, come formulato, non dà adito a dubbi su chi debba essere l’effettivo titolare dell’ACDat.
Il citato articolo parla di “acquisizione” non chiarendo se detto termine significhi che la stazione appaltante debba avere la proprietà o se sia sufficiente una diversa titolarità di un ACDat. Questo non è dato ricavarlo dal testo del D.M. 560/2017.
Sul punto soccorre l’ANAC con il documento di integrazione delle Linee Guida n. 1 relative all’ “Uso di metodi e strumenti elettronici specifici quali quelli di modellazione per l’edilizia e le infrastrutture nelle procedure di affidamento dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria. Equo compenso” (trattasi di un documento in consultazione che per effetto della conversione in legge del D.L. 32/2019, c.d. sblocca cantieri, con ogni probabilità non troverà attuazione poiché è previsto che quanto doveva essere disciplinato con tale strumento troverà attuazione con il regolamento di cui all’articolo 216, comma 27-octies, del D.L. 32/2019 convertito con legge con la legge di conversione 14 giugno 2019, n. 55).
L’ANAC precisa, con riferimento alla “proprietà dei dati e delle modalità di condivisione e gestione delle informazioni”, che “riguardo a quest’ultimo sarebbe preferibile che le stazioni appaltanti si dotassero, per ciascuna delle procedure di gara per le quali si farà ricorso ai metodi e gli strumenti elettronici, di un proprio ambiente di condivisione, come definito dall’articolo 2 del decreto n. 560/2017”.
Specifica, in particolare, che “tenuto conto degli oneri a carico delle stazioni appaltanti già previsti dal decreto n. 560/2017 nella prima fase di introduzione dei metodi e degli strumenti elettronici, è stata valutata anche la possibilità di demandare la messa a disposizione dell’ambiente di condivisione dati all’aggiudicatario”.
Ciò significa che, se nel primo periodo di adozione obbligatoria del BIM, le cui tempistiche sono dettate dall’art. 6 del D.M. 560/2017, può essere tollerato che l’onere di fornire un ACDat per i soggetti che intervengono in un appalto “BIM” sia posto a carico dell’appaltatore, a regime le stazioni appaltanti dovranno essere proprietarie dell’ambiente di condivisione e ciò per una loro maggiore garanzia.
Ed infatti l’ANAC, sempre nelle richiamate Linee Guida n. 1. ha affermato che: “Tuttavia, la necessità di conservare nel tempo il patrimonio informativo contenuto nell’ambiente di condivisione dei dati e di garantire l’accessibilità allo stesso anche dopo il completamento della prestazione professionale oggetto di affidamento, depone per il mantenimento in capo alla stazione appaltante della proprietà dell’ambiente di condivisione dati”.
Come è dato leggere, l’Autorità parla di proprietà e non di possesso o uso dell’ambiente di condivisione, non lasciando possibilità interpretative sul punto.
Per un approfondimento di sicuro interesse risulta la lettura dell’articolo scritto di recente a quattro mani dal collega avv. Andrea Versolato con l’ing. Alessio Bertella, dal titolo “l’Ambiente di condivisione dei dati (ACDAT) nei contratti pubblici. Definizione e profili giuridici”.
In questo articolo gli autori richiamano un caso sottoposto alla Tecnology and Construction Court inglese (TCC). Si tratta del caso [2017] EWHC 2061 (TCC) che ha visto opposte la Trant Engineering Ltd alla Mott Macdonaldn Ltd in cui per la prima volta di fronte ad un tribunale si pone la questione relativa alla proprietà delle informazioni presenti all’interno di un ambiente di condisione dei dati. Nel caso di specie l’appaltatore, la Trant Engineering Ltd, che doveva realizzare per il Ministero della Difesa inglese una centrale elettrica nelle isole Falkland, aveva lasciato alla Mott MacDonald Ltd, pur in assenza di un contratto che disciplinasse dettagliatamente i rapporti tra le parti sul punto, il compito di ospitare i progetti dell’opera oggetto di appalto. La controversia è insorta quando a seguito di un mancato pagamento la Mott MacDonald Ltd decideva di impedire l’accesso ai progetti alla Trant Enginireeng Ltd cambiando le credenziali dell’appaltatore che non poté, così, più fruire dei dati presenti nel Common Data Environment.
Il caso ha evidenziato in concreto per la prima volta la questione della pericolosità di un ambiente di condivisione dei dati che non sia nella piena proprietà e disponibilità del soggetto o dei soggetti che devono gestire direttamente le informazioni per la realizzazione di un’opera in BIM.
Il caso fa riflettere e porta a condividere la strada indicata dall’ANAC che indica alle stazioni appaltanti la necessità di essere, quanto meno in un futuro non troppo lontano, proprietarie dell’ACDat ove ospitare le informazioni siano esse progetti, dati o altro delle opere appaltate. Questo, si ritiene, proprio al fine di evitare situazioni come quella verificatasi nel citato caso sottoposto alla Tecnology and Construction Court inglese.