Le incognite del 2024 per il settore immobiliare
Si preannuncia come un anno complicato il 2024 per il mondo immobiliare: non necessariamente i risultati potranno essere negativi, ma l’incertezza che attualmente avvolge le prospettive di sviluppo del settore sta sicuramente mettendo a dura prova la fiducia degli operatori.
Molteplici sono i fattori che stanno conducendo a questa situazione e conseguentemente complesse e di non immediata individuazione sono le soluzioni che gli organi decisionali sono chiamati a definire.
Nel settore privato, l’onda lunga (e anomala) del Superbonus si sta esaurendo, con la presenza sul mercato di appalti di natura a dir poco incerta per le imprese più sane, che sono chiamate ad un’attenta selezione delle commesse per non subire un colpo di coda finale da parte di uno strumento che ha generato tanto volume in termini di lavoro ma anche tante incognite dal punto di vista degli incassi, soprattutto nell’ultimo periodo.
Gli scompensi finanziari per le casse dello Stato, di cui abbiamo periodicamente notizia tramite gli organi d’informazione, determinati da questo strumento di carattere straordinario, hanno fatto sì che non solo lo stesso sia stato ormai archiviato ma che l’intero meccanismo dell’incentivazione fiscale venga messo in discussione per i prossimi anni. Le conseguenze sul mercato diffuso del settore edile possono essere potenzialmente devastanti per due motivi: prima di tutto l’innegabile necessità di una leva fiscale per un settore produttivo che genera alti volumi di spesa per l’operatore privato il quale, sebbene proprietario del proprio bene, non è spesso in grado di sostenere un tale impegno economico. In secondo luogo, la progressiva stabilizzazione di un sistema di incentivazione fiscale che ormai da anni è stato introdotto e che ha visto una progressiva crescita delle modalità operative e delle aliquote detraibili, inducendo il mondo imprenditoriale a strutturarsi per rispondere ad una crescente domanda, mediante investimenti e assunzioni di personale: se venisse a mancare in maniera improvvisa la leva che ha determinato questa domanda, il contraccolpo lato imprese potrebbe essere sicuramente importante.
Come secondo elemento d’incertezza abbiamo le linee guida che intende indicare per il settore edile a livello comunitario il Parlamento Europeo: si sta discutendo molto della cosiddetta Direttiva Green, che imporrebbe un netto cambio di passo in termini di efficientamento energetico del patrimonio edilizio esistente ai Paesi membri, con l’innalzamento prestazionale alla classe energetica D di tutti gli edifici esistenti entro i prossimi 10 anni ed un percorso di continuo miglioramento previsto per gli anni successivi, un po’ come già avviene da anni per le motorizzazioni nel settore automotive in termini di emissioni nell’ambiente.
A questo aggiungiamo l’obbiettivo del raggiungimento delle “zero emissioni” per tutti gli edifici di nuova costruzione a partire dal 2028.
Sono scenari realisticamente non raggiungibili per Paesi come l’Italia, la cui anzianità media a livello di patrimonio immobiliare esistente imporrebbe, per ottemperare a tali obbiettivi, un’operazione di rinnovamento senza precedenti con costi non sostenibili, senza contare che lo stesso tessuto produttivo non sarebbe attualmente in grado di soddisfare una simile domanda, sia in termini di manodopera che di disponibilità di materiali a prezzi sostenibili.
Per il nuovo, invece, i costi di costruzione per l’edificazione di edifici N-ZEB sono ancora decisamente impegnativi per le tasche della gente comune e pertanto difficilmente ipotizzabili su larga scala.
Occorre un approccio più mediato, che recepisca il nobile spirito di queste proposte ma che al tempo stesso sia in grado di calarle all’interno della realtà di ogni singola economia nazionale, senza essere imposta dall’alto. Anche perché, gli effetti collaterali che azioni così radicali determinano, spesso sono anche più rilevanti di quelli che entrano in campo direttamente una volta che le stesse divengono operative: il valore degli edifici esistenti attualmente non rientranti nei parametri energetici stabiliti dalla Direttiva Green e che saranno pertanto obbligatoriamente soggetti a interventi di ristrutturazione nel giro di qualche anno è destinato a crollare rapidamente. Quale acquirente sarebbe invogliato ad acquistare un immobile per il quale a breve dovrebbe sostenere dei costi rilevanti di rinnovamento? Più ampia sarà la platea di immobili coinvolta in questo meccanismo e più forte sarà il contraccolpo sul mercato delle compravendite immobiliari. Tanto più se la logica è quella di irrigidire poi progressivamente negli anni le maglie del contenimento energetico in un’ottica di miglioramento continuo: non è possibile paragonare un immobile ad un autoveicolo, che è di per sé un bene di consumo.
Potrebbe venir meno il concetto stesso di investimento immobiliare, con edifici che subirebbero il meccanismo della svalutazione come mai prima d’ora.
Se a questo aggiungiamo le incognite sui mutui a tasso variabile determinate dalle attuali congiunture economiche internazionali, potremmo pensare di essere di fronte ad uno scenario di crisi perfetto.
Mi piace pensare che non sia così, perché il ritrovato slancio imprenditoriale nelle costruzioni a cui abbiamo assistito recentemente instilla fiducia. La transizione green è un passaggio dovuto ed obbligato, che può generare ricchezza oltre che ovvi benefici per l’intera comunità, ma va gestito in maniera graduale.
Quel che è certo è che urgono delle decisioni a livello politico che riguardino specificatamente il settore delle costruzioni e che, auspicabilmente, vadano oltre il mero opportunismo tra le parti, per non disperdere le energie di imprese che hanno già avuto la forza di superare lunghi periodi di stagnazione nel recente passato.