Marketing, valore aggiunto e sostenibilità: Cosa cambia oggi per gli Studi Legali
Le resistenze al cambiamento fanno riflettere: d’altra parte siamo figli di un’epoca che ha creduto e alimentato un sistema economico basato sul consumo, sulla crescita sfrenata e sullo sfruttamento senza regole delle risorse.
In questo contesto vendere e quindi prima ancora creare le condizioni per farlo erano attività essenziali: marketing e comunicazione giocavano un ruolo fondamentale godendo e scontando per primi -gioie e dolori- del successo o dell’insuccesso di questa o quella trovata, di questa o quella campagna.
Valore aggiunto, in antitesi con il vecchio concetto di marketing
Il concetto di “valore aggiunto” sembra essere sempre stato nella sua essenza più profonda in antitesi piena con il marketing, a cui si è imputata per anni la capacità di arrivare a creare esigenze e bisogni laddove un prodotto o un servizio in più servivano solo a contribuire a sostenere un sistema produttivo che correva all’impazzata e del tutto fuori controllo.
Qual era la meta? È proprio questo il punto: in un sistema che poggia la sua stessa esistenza sull’idea che lo sviluppo sia solo ed unicamente garantito dal consumo non c’è una meta da raggiungere perché l’unico obiettivo è…consumare.
Marketing studi legali: quando è iniziato il cambiamento
Poi, lentamente, qualcuno ha cominciato a farsi sentire, a proporre una visione diversa, a dimostrare -dati alla mano- che era impensabile continuare a mantenere lo stesso modello crescita. Le voci fuori dal coro sono risalenti, le prime addirittura datate anni ’70, sulla spinta anche di una crisi energetica che dovrebbe far suonare, almeno nella memoria di chi l’ha vissuta e non solo studiata nei libri di storia, più di un campanello.
Voci che sono state ignorate (spesso considerate alla stregua di una novella Cassandra) che hanno continuato però a farsi sentire, sempre più forti e frequenti, voci autorevoli e stimate e che sono diventate quelle dei tanti che non riescono o non riescono più a trovare una corrispondenza con i valori in cui credono e la vita che vorrebbero condurre.
Una posizione scomoda quella di chi propone di sradicare lo stile di vita a cui le maggioranze si sono abituate. E infatti l’idea che la sostenibilità sia una moda passeggera o solo un termine che è diventato abusato prima ancora di essere stato pienamente compreso è dilagante.
Un termine svuotato del suo valore (in questo caso, almeno, un valore gli viene riconosciuto).
(in questo caso, almeno, un valore gli viene riconosciuto).
Quelli che non capiscono ma si adeguano nel dubbio riciclano cartucce.
Quelli che si definiscono attenti e sensibili comprano tazzine e bicchieri compostabili.
Quelli che arrivano a descriversi sostenibili installano qualche pannello fotovoltaico, invece di fare i regali ai clienti mandano gli auguri di Natale via mail sostenendo un’associazione umanitaria e devolvono qualche ora del loro tempo ad attività c.d. pro bono -con la inconfessata speranza che serva a procurare altro lavoro pagato o, alla peggio, a tenere aggiornata la sezione del sito in cui se ne fa bella mostra.
La sostenibilità così viene appiattita e fatta coincidere con tematiche riguardanti l’ambiente, siano la gestione dei rifiuti o l’eco-compatibilità dei materiali utilizzati e prodotti, salvo affidare alla comunicazione interna ed esterna il compito di trarne il massimo vantaggio possibile in termini di visibilità e coinvolgere il marketing per farlo lavorare sulle possibili iniziative future.
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Comunicazione e marketing, le abitudini sono irresistibili
Le abitudini sono irresistibili. L’atteggiamento reazionario dei vertici imperante. Le espressioni “si è sempre fatto così” e “ai miei tempi….” cementate nella cultura aziendale e professionale.
Ed è proprio questo atteggiamento di chiusura e rifiuto che non consente di cogliere appieno la portata innovativa d questo nuovo modello di business, di questa nuova filosofia aziendale, di questa incredibile e irrimandabile opportunità di guardare la propria realtà nella sua stessa essenza e riscriverne il DNA, scegliendo una alla volta le combinazioni che le garantiscono di perseguire il profitto rispondendo contestualmente a una serie di istanze in ultima analisi orientate a distribuire benessere e sì, finalmente ci siamo arrivati, a generare e condividere valore.
Ed ecco dove si origina il corto circuito: se si comincia a parlare di filosofia aziendale, di modello di business, di DNA d’impresa, di strategia, politiche, processi allora non è più pensabile che sia il marketing a doversene occupare, a scandire il passo, a orientare le decisioni.
Non lo è semplicemente perché non deve esserlo, perché non può essere nessuna funzione aziendale diversa dall’AD, dal board, dai soci e da chi siede nella stanza dei bottoni a doversi far carico di comprendere, analizzare e rendere operativi tutti quei cambiamenti che portano un’impresa -e anche uno studio- a trasformarsi in una sustainable corporation.