Il deposito di prove digitali in formati non ammessi dalle specifiche tecniche sul pct
Un tema assai dibattuto e potenzialmente fonte di non poche problematiche in tema di produzione e formazione delle prove all’interno del processo, riguarda la produzione di documenti digitali che nascono in formati il cui deposito telematico non è ammesso dalle specifiche tecniche sul pct.
Come noto, infatti, ai sensi dell’art. 13 del provvedimento DGSIA 16 aprile 2014 il deposito telematico dei documenti informatici è consentito solo laddove essi siano in un numero ristretto di formati (precisamente: pdf, rtf, txt, ipg, gif, tiff, xml, eml, msg); si pone così da sempre il problema di come produrre quegli allegati digitali che non sarebbero accettati con il deposito telematico ma che costituiscono magari una prova fondamentale nel processo; si pensi ad un’immagine di diagnostica sanitaria in formato Dicom o ad una tavola redatta da un ingegnere in formato .dwg: si tratta a tutta evidenza di prove precostituite che devono fare il loro ingresso nel contraddittorio al fine di non pregiudicare il diritto di difesa.
Sul punto le specifiche tecniche dicono poco e l’unico riferimento appare contenuto nell’art. 15, ove si dispone che “I documenti probatori e gli allegati depositati in formato analogico, sono identificati e descritti in un’apposita sezione dell’atto del processo in forma di documento informatico e comprendono, per l’individuazione dell’atto di riferimento, i seguenti dati:
- a. numero di ruolo della causa;
- b. progressivo dell’allegato;
- c. indicazione della prima udienza successiva al deposito”.
La disposizione non appare immediatamente collegata al tema in discussione ma lo diventa se si interpreta il concetto di “analogico” come comprendente tutto ciò che non è digitale: in questo senso una produzione fatta salvando documenti su cd-rom o su dvd diventa “analogica” proprio perché effettuata depositando un oggetto fisico (il cd-rom o il dvd, appunto) all’interno del quale è inserito un documento digitale. In sostanza, ove si acceda a tale interpretazione, la produzione di un file Dicom, ad esempio, effettuata su cd-rom viene equiparata alla produzione di un altro oggetto fisico (ad esempio un casco, un pneumatico) con il vantaggio di garantire una linea interpretativa unica che accomuna tutti i casi in cui l’avvocato non può produrre documenti per via telematica ma è obbligato a recarsi in cancelleria.
Come si vede, peraltro, la norma in questione si limita a prescrivere un adempimento (identificare e descrivere i documenti analogici in un’apposita sezione dell’atto processuale che accompagna la produzione in questione) ma non subordina il deposito ad alcuna autorizzazione del giudice.
In dottrina si propone però un’altra interpretazione che fa leva sul disposto dell’art. 16 bis, comma 8, d.l. 179 del 2012 ai sensi del quale “il giudice può autorizzare il deposito degli atti processuali e dei documenti di cui ai commi che precedono con modalità non telematiche quando i sistemi informatici del dominio giustizia non sono funzionanti”. La norma viene interpretata nel senso che appunto i sistemi del pct non sarebbero “funzionanti” per accettare i depositi in questione e allora scatterebbe la necessità della preventiva autorizzazione del giudice.
Tale interpretazione presenta però dei profili critici che meritano di essere analizzati:
- il concetto di “funzionante” o meno appare legato all’ordinario esercizio dei sistemi informatici, ovvero al fatto che essi siano “spenti” a causa di disfunzioni operative, sicché pare arduo ricondurre a tale fattispecie il caso in esame in cui alla base dell’impossibilità di depositare determinati formati informatici c’è una scelta strategica del legislatore (es. il peso eccessivo di un file video o di una immagine di diagnostica sanitaria);
- la norma prevede una discrezionalità del giudice (“può autorizzare”) che nel caso di specie non può esserci; invero, come potrebbe essere negata la produzione di un documento prima ancora di esaminarlo (e per la verità ciò non potrebbe accadere neppure dopo l’esame)? Il giudice in questa fattispecie non ha alcun potere discrezionale e, ove opponesse un rifiuto ad una istanza di produzione documentale, lederebbe in maniera assai grave il diritto di difesa. Anzi, tale potere potrebbe sussistere laddove una parte chiedesse di depositare documenti in forma cartacea anziché telematica (perché magari troppo voluminosi), ma si tratta a tutta evidenza di fattispecie differente da quella di cui ci si occupa nelle presente trattazione.
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Va inoltre considerato che subordinare la produzione di documenti in formati non ammessi alla discrezionalità del giudice potrebbe essere fonte di problemi di non poco momento. Si pensi al caso in cui un determinato documento dovesse essere depositato con memoria ex art. 183, VI comma, n. 2, c.p.c: quid iuris laddove venisse chiesta l’autorizzazione alla produzione e il giudice provvedesse a termine scaduto? Anche qui sono ipotizzabili due soluzioni:
- ove si ritenesse sussistente il potere autorizzatorio del giudice certamente potrebbe essere formulata istanza di rimessione in termini ex art. 153 c.p.c., trattandosi di decadenza non imputabile alla parte;
- ove invece si appurasse, magari su eccezione del convenuto o su rilievo ex officio, che non sussiste alcun obbligo di interlocuzione preventiva col giudicante il deposito sarebbe irrimediabilmente tardivo con pregiudizio della parte (e dell’avvocato).
Orbene, a fronte di tali rischi la strada di affidarsi esclusivamente all’istanza preventiva di autorizzazione appare rischiosa e, come visto, non esente da criticità in diritto (anche se, a dire il vero, sostenuta da qualche protocollo locale e da alcuni usi di cancelleria). Appare dunque preferibile la diversa interpretazione che, facendo leva sulle disposizioni delle specifiche tecniche, propende per l’assenza di un reale potere autorizzatorio da parte del giudice. Logica conseguenza, ove si segua tale orientamento, è che il documento in formato “non ammesso” dovrà essere depositato in cancelleria immediatamente dopo l’invio a mezzo PEC dell’atto giudiziario; nulla vieta peraltro di inserire all’interno di tale atto anche una istanza di autorizzazione, che però verrebbe formulata in via “tuzioristica” e prudenziale.
Resta ancora da analizzare un’eventualità e cioè quali possano essere le conseguenze nel caso in cui il deposito del documento in formato “non ammesso” venga comunque effettuato e giunga a buon fine; la violazione delle specifiche tecniche potrà condurre alla declaratoria di inammissibilità del deposito? Francamente non pare ipotizzabile tale fattispecie, stante in particolare il disposto dell’art. 46 regolamento eIDAS ai sensi del quale “a un documento elettronico non sono negati gli effetti giuridici e l’ammissibilità come prova in procedimenti giudiziali per il solo motivo della sua forma elettronica”. In virtù di tale principio, al documento informatico/elettronico non potrebbe essere negata efficacia probatoria solo perché prodotto in violazione delle specifiche tecniche sul PCT.
Un problema potrebbe invece porsi laddove il documento, prodotto in violazione delle specifiche tecniche, non risultasse leggibile; potrebbe la parte chiedere di essere rimessa in termini per produrne una versione leggibile? In tal caso appare la risposta non può che essere negativa stante che, violando le prescrizioni sul deposito del documento, sarebbe evidentemente maturata una decadenza imputabile alla parte stessa, alla quale certamente non si potrebbe ovviare in aperta violazione del disposto dell’art. 153 c.p.c.
Visto l’evidente pericolo sotteso alla violazione delle specifiche tecniche appare certamente sconsigliabile il ricorso ad escamotage come l’inserimento del documento “non producibile” all’interno di un file zip; si ricorda infatti che all’interno di tale formato compresso possono essere inseriti solo documenti contemplati dall’art. 13 delle specifiche sul pct.